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September 22, 2011
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COMMENTI/All’Onu Obama ha paura e Sarkozy rilancia

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
Time: 8 mins read

A sinistra un’immagine di Barack Obama presso l’Assemblea delle Nazioni Unite

NEW YORK. Barack Obama deludente, Nicolas Sarkozy sorprendente e la presidente del Brasile Dilma Rousseff che si presenta alla grande sulla scena mondiale. Cosí potrebbe riuassumersi la giornata di mercoledí alle Nazioni Unite, con il confronto tra palestinesi e israeliani subito al centro dei discorsi.
"Peace is hard", fare la pace é difficile ha detto piú volte Barack Obama nel suo discorso di ieri all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Ma quella che ha chiamato la "ricerca della pace in un mondo imperfetto", da difficile diventa quasi impossibile per un presidente degli Stati Uniti che cerca di farsi rieleggere alla Casa Bianca nel 2012.
E infatti l’atteso discorso di Obama che doveva "chiarire" la posizione degli Stati Uniti riguardo alla richiesta dei palestinesi di avere il loro stato riconosciuto dall’ONU nonostante la minaccia d’Israele di far cadere ogni accordo di pace raggiunto finora, cade in costante contraddizione. Cosí il Presidente Usa afferma che siamo "giunti al bivio della storia con la chance di avvicinarsi decisamente nella direzione della pace. Per far ció, secondo Obama dobbiamo tornare alla saggezza di coloro che crearono questa istituzione. La Carta fondante della Nazioni Unite ci chiama- e cita letteralmente la carta- ‘ad unire le nostre forze per mantenere la pace e la sicurezza internazionale’. E l’Articolo 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo ci ricorda che ‘Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali nella loro dignitá e nei loro diritti". E dopo aver citato la Carta e la Dichiarazione universale dell’ONU, Obama aggiunge: "Queste fondanti convinzioni- nella responsabilitá degli stati e nei diritti degli uomini e le donne – devono essere la nostra guida".
Per poi dire peró che "La pace non arriverá attraverso i discorsi e le risoluzione dell’Onu" perché "se fosse stato cosí semplice, l’avremmo giá raggiunta".
Giá "peace is hard" la pace é difficile, ha ripetuto piú volte Obama durante il suo discorso. Ma questa pace, almeno quando si parla di quella tra palestinesi e israeliani, diventa ancora piú "hard" quando lo stesso presidente che, un anno prima, sempre alle Nazioni Unite aveva detto di sperare di vedere l’anno prossimo uno stato palestinese riconosciuto dalla Nazioni Unite, adesso cerca di convincere la delegazione palestinese a non presentare la domanda rii riconoscimento, perché "la pace non arriverá attraverso l’Onu".
Lo ha ricordato lui stesso ieri quel momento quando si auguró, da quello stesso podio, uno stato indipendente della Palestina. "Ci ho creduto allora, e ci credo adesso, che i palestinesi hanno diritto ad un loro stato. Ma ho anche detto che una pace vera puó essere raggiunta soltanto tra israeliani e palestinesi…"
Obama ha detto di comprendere le frustrazioni che ci sono per la mancanza di progressi nelle trattative tra le due parti, "vi posso assicurare che le ho pure io. Ma il problema non é l’obiettivo che ci prefiggiamo, ma come raggiungerlo. E sono convinto che non esistono scorciatoie alla fine del conflitto… La pace é un duro lavoro, e non verrá attraverso annunci e risoluzioni alle Nazioni Unite". Quindi per Obama i palestinesi devono desistere dal loro proposito di presentare la domanda di riconoscimento e tornare al tavolo dei negoziati con il governo di Netanyahu.
Ma la delegazione palestinese guidata dal presidente Abbas, nei corridoi dell’Onu e poi durante una conferenze stampa, ha continuato a ripetere: "Ma perché mai non potremmo tornare al tavolo dei negoziati da stato riconosciuto dall’Onu, perché dobbiamo continuare a dover negoziare da territorio occupato… Siamo qui non per cercare di farci accettare dalla Mafia o da Al Qaeda, ma dall’ONU. Non é qui che si viene per cercare la pace?" ha detto ai giornalisti il Dr. Nabel Shaat, uno dei negoziatori di Abbas al Palazzo di Vetro.
Obama ha detto nel suo discorso che israeliani e palestinesi devono imparare a "stand in the other’s shoes", mettersi nei panni dell’altro, imparando a guardare al mondo attraverso gli occhi dell’altro. "Questo é quello che dobbiamo promuovere e incoraggiare". Ma nel discorso di Obama, purtroppo, é sembrato piú che la tendenza del presidente americano fosse quella di mettersi solo “nei panni” di Israele.
I palestinesi guidati da Abbas, ci sembra, non hanno fatto altro che seguire la strada indicata precedentemente dal Presidente americano, cioé di sbloccare la strada, bloccata da tempo, che porta alla pace anche attraverso il loro riconoscimento all’Onu. Ma poi, per il risultato finale di due stati nella pace e nella sicurezza, è ovvio che si deve riaprire una trattativa e raggiungere l’accordo con lo Stato d’Israele.
Obama, in un discorso durato 45 minuti e che ha toccato diversi punti (fortissimo il suo attacco al regime siriano di Assad in cui ha intimato al Consiglio di Sicurezza di decidersi ad imporre delle sanzioni alla Siria) purtroppo non é riuscito ad evitare la più evidente delle contraddizioni. Citando il Presidente Truman, per Obama le Nazioni Unite “sono essenzialmente l’espressione della natura morale delle aspirazioni dell’essere umano”. Ma mentre proclamava il suo pieno appoggio alle piazze dei giovani arabi in rivolta per la conquista delle libertá democratiche e dei diritti che, sempre secondo Obama, rappresentano il motivo fondante delle Nazioni Unite, il presidente americano respingeva il tentativo del popolo palestinese ad aver riconosciute le loro aspirazioni dall’Onu,
“Peace is hard, but we know it is possible” ha ripetuto alla fine Obama. Concludendo: “Allora cerchiamo insieme di essere decisi nel cercare di raggiungerla con le nostre speranze e non con le nostre paure”. Eppure nel discorso di ieri, Obama é apparso sempre piú terrorizzato dalle conseguenze che un suo appoggio alle aspirazioni palestinesi di avere il loro stato riconosciuto dall’ONU avrebbero avuto sulle possibilitá di una sua rielezione alla Casa Bianca.
Non aveva di questi problemi invece il Presidente francese Nicolas Sarkozy, che ha parlato dallo stesso podio poco meno di un’ora dopo Obama. Il suo discorso, tutto improntato sul conflitto israelo- palestinese, è stato praticamente un rifiuto di allineare la Francia alla posizione americana di far rinunciare i palestinesi a cercare un riconoscimento dall’ONU, se prima non fosse arrivato un accordo di pace con Israele.
“Non possiamo rispondere a questa ispirazione per la libertà e la democrazia così splendidamente e coraggiosamente espressa dalle popolazioni arabe”, ha detto Sarkozy, “perpetuando una tragedia, quella del conflitto arabo palestinese, che per troppo tempo ha alimentato così tanta sofferenza e risentimenti. Non possiamo rispondere all’appello per la giustizia che ha scosso il mondo perpetuando una ingiustizia”. E poi, con uno stile tutto suo, Sarkozy ha alzato la voce:
“Non si può più aspettare! È il metodo usato fino adesso che ha fallito? E allora cambiamo il metodo!”
Sarkozy in certi momenti appariva non più leggere il discorso ma andare a braccio.
“E vero” ha continuato Sarkozy, “questa pace sarà costruita dagli israeliani e dai palestinesi. Nessun altro può farlo. Nessuno può chiedere di imporla su di loro. Ma dobbiamo aiutarli, dobbiamo riassicurlarli; dobbiamo creare le condizioni per il dialogo, il negoziato e la riconcilizione” ha detto il presidente francese, che subito dopo ha aggiunto: “Ma questo non sará un incarico per un solo paese o un gruppo di paesi. Questo deve essere il lavoro per tutti noi”.
E quindi Sarkozy, ricordando come ormai tutti gli elementi per un accordo si ritrovano nei documenti sfornati in passato, dalla conferenza di Madrid del 1991 al discorso di Obama pronunciato lo scorso maggio, ha indicato nuovo modo di cambiare il metodo per raggiungere la pace, fissando delle precise scadenze:
“Un mese per riaprire le discussioni”
“Sei mesi per trovare un accordo sui confini e la sicurezza”
“Un anno per raggiungere l’accordo finale”
Sarkozy sul podio dell’Assemblea generale dell’ONU ha detto che la soluzione perfetta non esiste, ma bisogna scegliere il compromesso, che “non sarà né una rinuncia né un ripudio, ma che ci aiuta a andare avanti, gradino dopo gradino”.
Poi il presidente francese è andato al cuore della questione principale in questi giorni all’ONU, avvertendo: “c’é forse chi dubita il fatto che con un veto al Consiglio di sicurezza non si rischi di far partire un nuovo ciclo di violenze in Medio Oriente?”
Così, con una mossa che a sorpreso tanto i diplomatici quanto i giornalisti, Sarkozy ha staccato la Francia dalle posizioni americane e ha auspicato una fase intermedia, offrendo alla Palestina lo status di Stato osservatore alle Nazioni Unite. Cioé un voto all’Assemblea Generale che innalzi lo status da semplice entità palestinese a “Stato osservatore”. Non ancora una piena appartenenza dello stato palestinese alle Nazione Unite con diritto di voto, che solo il passaggio al Consiglio di Sicurezza potrebbe assicurare, ma sicuramente un passo avanti che risponderebbe alle aspirazioni palestinesi contro l’immobilità del passato. “Così ridaremmo speranza con questo passo in avanti verso lo status finale”.
E per dimostrare il loro impegno a una pace negoziata, l’autorità palestinese deve, secondo Sarkozy, riaffermare il diritto di Israele all’esistenza e alla sicurezza. E inoltre, sempre per il presidente francese, “i palestinesi dovrebbero impegnarsi a non usare il loro nuovo status per intraprendere azioni incompatibili con la continuazione dei negoziati di pace”.
“Andiamo avanti…. Cambiamo il metodo. E cambiamo anche il nostro stato mentale”
Cosí Sarkozy ha incitato anche il popolo israeliano ad ascoltare i popoli della primavera araba che gridano “Lunga vita alla libertà! Non stanno gridando: morte a Israele”.
Il Presidente ha concluso il suo intervento incitando tutti “a non perdere questo appuntamento con la Storia”.

Quando al negoziatore palestinese Nabel Shaat, inviato dal presidente Abbas a rispondere alla domande dei giornalisti, é stato chiesto la reazione della delegazione palestinese al discorso di Sarkozy, con quelle scadenze temporali fissate, il delegato di Abbas ha fatto capire che andava benissimo.

Ieri alle Nazioni Unite, il president Obama é sembrato appiatito sulle posizioni del governo Netanyahu, che infatti durante un incontro nel pomeriggio, ha detto che Obama si merita una medaglia per quel suo discorso. Questo mentre sul New York Times appariva un commento dell’ex premier israeliano Ehud Olmert, una analisi intitolata “Peace now o never” Pace adesso o mai piú, in cui l’ex premier israeliano accusava il governo Netanyhau di non avere il coraggio delle decisioni difficili che ci vogliono per la pace perché si cura di piú delle sue personali sorti politiche.
Ilpresidente francese Sarkozy, al contrario di Obama, invece ha scaldato l’Assemblea generale e si dovrá capire nei prossimi giorni se il suo tentativo di trovare “un nuovo metodo” per scuotere la trattativa israelo paelstinese andrá lontano o sará subito abortito grazie anche alle divisioni europee.
Venerdí parleranno all’Onu sia il presidente palestinese Abbas che il premier israeliano Netanyahu.

Non si puó concludere questa corrispondenza dal Palazzo di Vetro, senza segnalare l’intervento della presidente del Brasile, Dilma Rousseff, intervento storico quello di mercoledí perché é stata la prima volta dalla fondazione delle Nazioni Unite, che una donna ha aperto gli interventi dei leader mondiali all’Assemblea Generale. E la presidente brasiliana, oltre a parlare dei pericoli della crisi economica, ha mostrato subito i muscoli della Potenza brasiliana in ascesa chiedendo l’accelerazione della riforma del Consiglio di Sicurezza, una riforma che possa garantire al Brasile quel seggio permanente e rifletterne il suo nuovo status mondiale. L’Italia, all’Onu in questi giorni rappresentanta dal solo ministro degli Esteri Frattini, che nei corridoi del Palazzo di Vetro porta sulle spalle tutto il peso delle debolezze di Berlusconi e del suo governo, é avvertita. Questa volta sará proprio dura riuscire a fermare l’ambiziosa riforma voluta, oltre che dal Brasile, dall’India, il Giappone e la Germania, che potrebbe decretare un ulteriore declassamento dell’Italia a livello mondiale.

 

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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e diretto (2013-gennaio 2023) La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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