Il momento è grave. Ora più che mai l’Italia è lo zimbello del mondo. Non lasciano adito a equivoci le raffiche di vignette sul Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sparate nei giorni scorsi su numerosi quotidiani inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli. Quadretti che riflettono alla perfezione, e quindi in modo impietoso, la Nazione italiana come essa è stata ridotta dalla destra al potere e dal capo della destra, lui, appunto, Silvio Berlusconi, il generoso artefatto, il cordiale artefatto, il volitivo artefatto. L’opera di demolizione d’un Paese un tempo saldo, robusto, anche se percorso da lacerazioni e avvelenato qua e là da sperequazioni e iniquità, era stata comunque avviata da Romano Prodi, dal Governo Dini – e dai quarantenni (di destra e di sinistra) i quali pretendevano di conoscere le arti più sublimi della politica, della “politica da porre al servizio del cittadino”: Balle! Avevano già deciso di porla al servizio dei loro esclusivi interessi, tutti quanti, o quasi tutti: post-missini (in primis), post-comunisti, post-democristiani.
Ma gli “schizzi” apparsi sui giornali esteri riguardano tutti noi. Riguardano tutti gli italiani, quelli che vivono in patria, quelli, come voi, cari lettori, che vivono negli Stati Uniti; e tutti gli altri soggetti di lingua italiana sparsi per il Mondo. Non c’è distinzione: questo nuovo attacco a Berlusconi – condotto sulla base di una satira calzante, efficace – è diretto anche a noi. Esso chiama in causa il nostro “carattere nazionale”, assesta l’ennesimo, durissimo, colpo all’Italia, alla società italiana: alla “visione italiana” della vita.
Vediamo di spiegarci in parole povere, magari anche terra terra. Due “Italie” hanno convissuto a lungo insieme, a partire dagli Anni Venti-Trenta (con l’espansione del cinema, della radio, delle ferrovie) fino ad arrivare agli Anni Settanta/Ottanta. L’una (formatasi sull’orientamento filo-tedesco di fine Ottocento, primi del Novecento) raffigurava il rigore, la serietà, metteva in guardia dai pericoli dell’individualismo (eppure valorizzava l’individuo); collocava sullo stesso piano forma e sostanza. L’altra, nei ritmi veloci stabilitisi dopo la Grande Guerra, rappresentava una genìa pronta a farsi sedurre dal superfluo, dal colpo a effetto, dalle “soluzioni facili”, insabbiata in un curioso impasto di nazionalismo e esterofilia; una genìa di piccoli illusionisti di rione, da caffè, in cerca del grande illusionista; un mondo di parassiti che imprecavano, e imprecano, al parassitismo (forza della doppiezza “italiana”!), di tizi attratti dai miti stranieri, ma ancorati al proprio ottuso provincialismo. Vedasi il molto significativo film “Un americano a Roma” (1954) con Alberto Sordi, che, appunto, è l’”americano”. Ce n’era in Italia di gente identica a quel Sordi “di Kansas City”, noi stessi ne conoscevamo alcuni esemplari, uno dei quali, nel 1959, volle andare in vacanza negli Stati Uniti “per conquistare quante più americane possibile!”. Dopo un paio di mesi, il ricco e aitante rampollo tornò corrucciato e seccato. E sentenziò: “Donne deludenti le americane!”. Per settimane i componenti della sua cerchia non parlarono che della “immeritata” delusione a lui inflitta dalle americane…
Al potere c’è andata ora “questa” Italia. Ve l’ha condotta Silvio Berlusconi. O è stato lui a esservi condotto dall’”americano di Kansas City”… Eccolo il trionfo degli artisti della banalizzazione, dei quali sarà difficile liberarci poiché coi loro fanti e gregari essi occupano i grandi centri di potere, affollano gli studi televisivi, lanciano convegni, organizzano simposi. Campioni della banalizzazione, campioni della finzione. La finzione è la linfa vitale di “questa” Italia. Dell’altra Italia non restano che poche, pochissime “sacche”, ahimè trascurabili.
Il peso specifico della Nazione italiana, il “nostro” peso specifico, è irrisorio. Non si può non ridere dell’Italia. E questo ci ferisce.