UN QUARTO di secolo quasi senza che ce ne accorgessimo. Il programma Erasmus è entrato nel suo venticinquesimo anno, vale a dire che i primi ragazzi che nel 1987 approfittarono della possibilità di andare a studiare in un altro Paese europeo adesso sono cinquantenni o quasi, e probabilmente hanno figli ventenni o giù di lì che si lanciano a loro nel programma e se ne vanno in giro per l’Europa a imparare altre lingue, a scoprire altre mentalità, a valutare le differenze con il loro Paese e insomma a incontrare tutto ciò che va sotto il nome di sprovincializzazione.
Sono stati circa duecentomila i ragazzi che questa volta hanno preso il treno dell’Erasmus a costruire la grande armata dei "cittadini europei". Molti di loro torneranno a casina della mamma. Altri faranno una visita per ripartire presto, magari verso un’altra lingua e un’altra specializzazione. Altri ancora tanto si sentiranno radicati nel loro nuovo Paese che il loro "donde" lo dimenticheranno del tutto. Comunque sia, è entusiasmante l’idea di questa gioventù mobile che salta in tutti gli angoli di un continente ove per secoli non si faceva che scannarsi gli uni contro gli altri. Viva l’Europa e grazie ai visionari all’Altiero Spinelli, che si ostinava a sognare e a progettare l’Europa unita perfino nel paesino sperduto in cui il fascismo lo aveva confinato, sottolineando l’abisso mentale fra chi pensava in vastità e chi si rinchiudeva nell’angustia. Il concetto base di Erasmus è la fecondità dello scambio culturale.
"Tutti hanno qualcosa da imparare da tutti", ma è meglio dirci subito che lo scambio non è "uguale" perché chi ha molto da insegnare ha anche poco da imparare e chi ha molto da imparare ha anche poco da insegnare. Non c’è niente di male nell’essere più o meno sviluppati, più o meno alfabetizzati, più o meno bene educati e più o meno capaci di manifestare quelle doti. E per farsi idea di chi è destinato prevalentemente a insegnare e chi prevalentemente a imparare (se ne avrà voglia) non è molto difficile: basta guardare quali Paesi sono più ambiti e quali meno; da quali Paesi si torna desiderosi di "fare come loro" e da quali si torna con l’idea di non imitare proprio nessuno.
E poi ci sono i Paesi che sanno "organizzare" la partenza dei propri giovani verso altre università e quelli che ai propri giovani desiderosi di andare fuori creano più problemi che altro. Le tabelle sono antipatiche i numeri sono privi di sangue, ma un’occhiata nemmeno tanto attenta ai movimenti di questo venticinquesimo anno di Erasmus ci dice rapidamente che il Paese che invia all’estero più studenti (23.553) è la Germania, quello immediatamente dopo (23.107) è la Spagna e il terzo (22.556) è la Francia. Come "fuoriuscito per disgusto" dall’Italia non mi è difficile immaginarla nei piani bassi della classifica; ma per quanto riguarda le partenze l’Italia è comunque subito dopo le "magnifiche tre", avendo spedito all’estero 17.562 studenti. Dove invece non c’è traccia dell’Italia sono le tabelle riguardanti i Paesi più "desiderati". Il più popolare è in assoluto la Spagna, che in questo venticinquesimo anno ha accolto 27.831 ragazzi; al secondo posto c’è la Francia con 20.503 ragazzi andati lì proseguire gli studi e al terzo posto la Germania con 17.801 ragazzi.
L’Italia in questo elenco non c’è per niente, ma spulciando con pazienza fra dati particolari (con indicazioni per singole università, non per Paesi) si scopre che i ragazzi andati in Italia sono circa tremila. Il processo della scelta del Paese cui andare, spiega uno studioso di questo fenomeno, "è simile all’acquisto di un libro o all’andare a vedere un film", nel senso che i ragazzi si consultano, raccontano agli amici le ottime (o il contrario) esperienze fatte in questo o quel Paese, proprio come si dice a un amico "leggi quel libro, merita" o "vai a vedere quel film, lo merita". L’Italia, evidentemente, è un film noioso e scritto male o un film diretto da un regista così così e recitato da attori mediocri. Con l’aria che tira, non c’è da stupirsi.
Speriamo che quei 17.000 e rotti italiani andati altrove, ritornino un po’ migliorati e soprattutto un po’ più esigenti di come un Paese debba essere governato.