Benché la prospettiva libica appaia così confusa da non consentire previsioni certe sul dopo Gheddafi, qualche elemento utile inizia a profilarsi. Di interesse il ritorno in superficie di colui che fu, agli albori dell’insorgenza contro la monarchia di Idris, il numero due del regime, Abdusalam Ahmed Jalloud. Condivise con il colonnello l’utopia di un glorioso futuro per il paese nord africano, gestendo, una volta al potere, le ricchezze petrolifere, e assumendo il ruolo di primo ministro tra il 1972 e il 1977. Una ventina d’anni fa, l’uscita di scena, probabilmente per decisione dell’antico compagno delle elementari, ormai “guida suprema”. Si ritrovò sotto residenza sorvegliata, quasi fosse un prigioniero. Di tanto in tanto compariva all’estero per curarsi, grazie anche alla protezione di uno dei figli del dittatore, che voleva recuperarlo.
Jalloud ha vissuto con discrezione il suo ventennio di “esilio” interno, convinto a non mostrare alcuna propensione all’impegno politico. Nel mio viaggio a Tripoli, qualche giorno prima dell’inizio delle ostilità, avevo chiesto di lui agli interlocutori, evasivi al punto di dirmi che presupponevano se ne stesse rintanato nella sua villa privata. In agosto è stato avvistato in Italia a rilanciare rapporti con la corte di Andreotti e il giro Eni. Nell’occasione ha fatto circolare l’intenzione di dar vita a un partito “liberale”. Visto che prima di finire in disgrazia amava prendere posizioni anche più estreme di quelle di Gheddafi, dovrà qualche spiegazione alla Corte penale internazionale e alle cancellerie che hanno condotto le operazioni militari contro il dittatore.
Sulla stampa italiana qualcuno si è azzardato a scrivere che sia nella cinquina di possibili primi ministri. Un rientro al vertice sembra eccessivo, mentre la coraggiosa fronda a Gheddafi potrebbe donargli l’aurea per incarichi in gangli vitali del nuovo stato in costruzione, tanto più che gode l’appoggio della sua potente tribù, Megarha, e che da un paio di mesi si è messo con gli insorti, condannando l’accanimento di Gheddafi nel difendere i suoi privilegi nonostante i costi per il paese in termini di vite umane e distruzioni. C’è da aggiungere che Jalloud, in tempi non sospetti, si espresse pubblicamente a favore del ruolo dell’islam nello sviluppo libico, anche a rischio di collisione con certi dettami “laici” del libretto verde gheddafiano. Mentre in Algeria laici e soldati facevano la guerra agli integralisti del Fis, dichiarava, in occasione della visita al papa nel gennaio 1992: “…siamo musulmani ma senza estremismi. Fin dal 1969, dal giorno della rivoluzione, mentre tutto il mondo arabo era ispirato da un forte laicismo, noi abbiamo annunciato subito che volevamo la liberazione dell’ Islam. E subito abbiamo applicato tante regole islamiche nella vita pubblica".
Se le cose non dovessero andare per il verso che probabilmente si augura, Jalloud proseguirà nella solitudine tipica dei numeri due dei regimi autoritari. Avrà tempo per riflettere sugli errori di una rivoluzione che fu anche sua, finita in guerra civile. Si chiederà, come altri leader africani che hanno condotto il loro popolo al disastro, perché le rivoluzioni inizino ballando in strada e terminino con le esecuzioni capitali. Ha carisma per tenere unito un paese tribale, con scarso radicamento delle istituzioni statali, che sta rischiando secessioni e tribalismo, ma non è detto che gli venga chiesto di farlo dagli attuali maggiorenti che potrebbero addirittura invitarlo a starsene ancora da parte. Per lui varrebbe il verso di un altro grande confinato, il poeta arabo Abenmotárif, nel XIII secolo dalla residenza di Granada: “Quando il dolore non mi dà pace e l’insonnia s’impadronisce delle mie palpebre, cerco riposo nella mia stessa sofferenza”.