Nella foto, il ritrovamento del corpo di Aldo Moro il 9 maggio 1978
Una delle poche iniziative senz’altro condivisibili del II Governo Prodi è stata l’istituzione del “Giorno della memoria”, per le vittime del terrorismo e delle stragi. Com’è noto, la data è quella del 9 Maggio. Il giorno di Aldo Moro. Col suo omicidio fu raggiunto un crinale. Non solo nella feroce e modesta storia delle Brigate Rosse o in quella, degnissima e mite, della moglie e dei figli dello statista. Ma nella nostra tormentata e nobile storia repubblicana. Cosa ci avrebbe atteso dopo quel crinale è questione tuttora aperta. Da trentatré anni se ne discute: la fine della Prima Repubblica, la sua effimera riscossa (l’avvio della vittoria sul terrorismo di sinistra), la perdita della nostra innocenza (lacerata dallo spirito tragico della fermezza). L’importanza di celebrare la memoria di solito risiede nel consolidarsi di una visione, di un sostrato fondativo, di un vissuto accomunante. E la celebrazione postula che, sugli eventi, il tempo abbia diffuso nitore e quiete. In Italia, no. In Italia la memoria è ancora fuligginoso e perturbato resoconto cronachistico e tuttavia, la forzatura terminologica insita nel “Giorno della memoria” potrebbe risultare feconda: dischiudendo approdi che ci sarebbero preclusi se il distacco fosse maturato, se tra noi e i fatti da ricordare, fosse intervenuta la sublime alterità del tempo trascorso. Perché la prossimità, mentre impedisce l’analisi storica, permette il rimedio politico.
La cronaca assale la memoria, innanzitutto, perché dopo quel crinale vi sarebbe stato, purtroppo, ancora il grosso delle stragi: Ustica, Bologna, Chinnici, Rapido 904, Capaci, Via D’Amelio, Georgofili, Via Palestro. E la risacca sanguinaria del terrorismo di sinistra, lunga fino a Massimo D’Antona, passando per Marco Biagi, Roberto Ruffilli, Lando Conti. Gli altri, tutti, li accomuniamo nel ricordo di Moro. Ma per quanto indistinto, e giustamente indistinto, sia lo spazio occupato nelle nostre menti e nei nostri cuori dal sangue di ognuna di quelle vittime, l’indecifrato dopo il crinale, l’inquietudine che inibisce il potere pacificante del tempo, probabilmente dipendono da Via Fani. Proprio da Moro. Non a caso, dunque, il 9 Maggio. Giacchè, dopo quel giorno, non morì solo il Presidente della Democrazia Cristiana, ma la Democrazia Cristiana; non solo la Democrazia Cristiana, ma il Partito Comunista; non solo il Partito Comunista, ma la Sinistra italiana; non solo la Sinistra italiana ma l’alternativa; non solo l’alternativa ma il vigore e, con il vigore, la salute di una classe dirigente, la sua sintonia con l’incedere del tempo. Cioè con i volti, le vite, i pensieri, le speranze dei suoi figli e delle loro generazioni. Dopo Moro, il piano ideale su cui si era costruito l’arco costituzionale, s’inclinò, le matrici culturali su cui si era iscritta la politica italiana cessarono di essere moderne. Essere moderno significa possedere la misura e lo spirito del tempo presente. Da quel momento, gradualmente, la classe politica avrebbe preso una strada, la società, un’altra.
E infatti Moro deve la sua grandezza al tentativo di leggere i rivolgimenti sociali originati dal tumultuante corso degli anni ’60, straripati nelle tragedie dei ’70. Quel tumultuare, quel germoglio spinoso descrivevano l’altra Italia, rispetto al mondo di cui Moro era icona, l’Italia di sinistra, quindi, in gran parte, l’Italia comunista. In questo tentativo Moro fu affiancato da Berlinguer, forte di un P.C.I. al 35% dei consensi, il massimo storico raggiunto nel 1976. Fu un tentativo non solo perché il suo ulteriore svolgimento fu interrotto dall’antimoderna azione brigatista. Fu un tentativo anche perché l’addensarsi, in un’unica dimensione istituzionale e politica, del maggior partito di governo e del maggior partito di opposizione sbarrava il passo all’ideazione di un’alternativa di sinistra. E tuttavia, in quel crogiolo di sangue e di equivoci e di sviste storiche e culturali che furono, essenzialmente, gli anni ’70, quella sorta di consolato, quella eccezionale convergenza espressero al sommo grado, e tragicamente, la dignità del ruolo dirigente di chi la volle impersonare, volgendosi ad uno scopo e ad un azzardo necessario: arginare una marea montante e, al tempo stesso, definire nuovi itinerari, nuove regole, nuove identità.
Il P.C.I., sin dalla costituzione della Repubblica e fino ai governi di solidarietà nazionale aveva oggettivamente assunto un ruolo propulsore ed eclettico: spazio laico, emancipatore di masse, antipiretico rivoluzionario, reale rappresentanza democratica, fucina d’arte e d’intelletto. Morto Moro, cominciò la sua eclissi. E, con Craxi, la Sinistra italiana ebbe la sua ultima occasione e la sua definitiva sconfitta. Se oggi, infatti, si è perlopiù ridotta ad un’accolita di celerini lo deve, in gran parte all’involuzione del c.d. secondo Berlinguer (quello rimasto orfano di Moro) che, anziché cogliere e legittimare le spinte riformiste provenienti dal campo socialista, gli oppose sempre un’inossidabile carica di diffidenza, quando non di vero e proprio disprezzo.
Scelta tanto più improvvida quanto più urgente si poneva il tema dell’alternanza: con l’eccidio di Moro che aveva ripiombato la Democrazia Cristiana in un parallelo immobilismo progettuale e politico, a quel punto, solo in attesa di essere sostituito da un’alternativa riformista e definitivamente socialdemocratica.
Preda della “diversità comunista”, il partito si trincerò sempre più in una livida retroguardia antagonistica, culminata nella sconfitta sulla scala mobile e nell’ambiguo pacifismo verso i missili di Comiso; un’ombra, rispetto allo smagliante protagonismo di Craxi, cui, piuttosto, a sinistra sarebbe servito un interlocutore aperto e altrettanto spavaldo, per evitare che il peso (finanziario, in primo luogo) dell’ardimentosa battaglia riformista lo piegasse, ne favorisse gli (evitabili) errori e, da ultimo, lo finisse.
In tale contesto, la divaricazione fra politica e società si fece disaffezione, diffidenza, ancor più alimentate da un dinamismo sociale ed economico non inedito nella storia repubblicana, ma nuovo nelle forme e nei costumi in cui si andava declinando. Fermento sbocciato nella c.d. marcia dei quarantamila e postosi alla ricerca pure di un quadro ideale ulteriore e diverso rispetto a quello cristallizzato nei valori della Resistenza e dell’antifascismo: fondativi della Repubblica, ma sempre meno pronti, con le loro propaggini programmatiche ed egualitaristiche, a cogliere le multiformi duttilità che, sempre più insistentemente, attraversavano la società italiana. Nella Sinistra ci fu una disarmonica lettura politica di quel dinamismo, di quelle duttilità, specchio dell’asimmetria di significati e di volontà in cui si consumava il suo dramma e, nel perdurare della sclerosi democristiana, di tutta la politica italiana.
Da quel dialogo mai fiorito, scaturì, infatti, il progressivo inaridirsi dell’iniziativa socialista che, volendo incunearsi fra i due colossi (sostenuti da un imponente apparato finanziario, sia interno che internazionale, illegalistico ma, di fatto, tollerato) e, al tempo stesso, contando di mantenere vivida la prospettiva riformista, si inerpicò sul periglioso sentiero dei finanziamenti illeciti. Da lì, nel crescente appannamento politico seguito a suoi Governi, Craxi scivolò verso un pelago di flussi finanziari sempre più personalistici e anarcoidi. E in quelle acque turbolente, spazio, allora, di reale e quotidiana competizione con le due “Chiese”, si aprì “Mani Pulite”: non un secondo crinale, ma una voragine che, con accigliato e filisteo negazionismo, avrebbe disconosciuto la cruda centralità della questione finanziaria, inghiottendo, tutta intera, cinquant’anni di storia repubblicana.
Dopo, a Italia ripulita, il patrimonio ideale e progettuale della Sinistra riformista, già schernito e ignorato, gira gira, è divenuto il fondamento di ogni identità politica appena degna di chiamarsi Sinistra. Solo che, ancora una volta, si vollero apportare perniciosissime varianti a quell’impianto: la goffa e servile acquiescenza ad un devastante vento liberalizzatore, sospinto da Prodi, Ciampi e Scalfari e l’affastellamento reazionario di una panoplia inquisitoria, meschinamente vissuta come svolta strategica e velenosamente ammannita proprio dalla lobby di De Benedetti & Co, perché favorisse il miraggio di una conquistata supremazia. Trovava, invece, spazio un’impostura questurina e disciplinare, occhiuta filigrana culturale della rinnovata vita repubblicana, da cui è derivato uno stordimento ideale, morale e sociale che è la cifra dei nostri anni. Il potenziale innovatore di Berlusconi è rimasto in larga parte inespresso; ma anche quanti affermano si tratti in realtà solo di una “bolla”, dovrebbero ricondurne la genesi a quello stordimento e a quella violenta e anfetaminica avidità di potere.
In questa stessa settimana, il Presidente Napolitano, intervenendo al primo anniversario della morte di Antonio Giolitti, spirito libero e riformista, si è testualmente riferito alla dimensione socialdemocratica, quale unico ambito ideale e politico percorribile dalla odierna Sinistra. Se il tema è ancora attuale (e, vista l’autorevolezza, non solo istituzionale, dell’apostrofe, non c’è motivo di dubitarne), questo significa che la Sinistra deve riscuotersi da pulsioni e scorie che configgono con una compiuta acquisizione di quella dimensione. Affinchè la riflessione comune si affranchi dall’ipoteca cronachistica e si consolidi finalmente in memoria. Nello scenario di oggi, significa svincolarsi dall’abbraccio, infausto e delegittimante, di quella lobby affaristico-mediatico-giustizialista. Questo è un discrimine, questo è un nuovo crinale.