La regina Elisabetta, sbrigata la pratica del matrimonio del nipote (visto il precedente di Diana, che Dio gliela mandi buona!), andrà il 17 maggio in visita ufficiale nella repubblica d’Irlanda. E’ la prima volta che un monarca britannico visita l’Eire, un passaggio reso possibile dai recenti accordi per la pacificazione dell’Ulster, la parte settentrionale dell’isola irlandese tuttora sotto la Union Jack. Tanto per non smentirsi la Real Ira, che in dissenso con il processo di pacificazione sottoscritto dalle altre sigle del variegato nazionalismo repubblicano dell’Irlanda del Nord lotta ancora contro gli unionisti protestanti e Londra, ha dichiarato a Pasquetta di essere pronta al benvenuto riprendendo gli attentati contro le forze di polizia. Un attivista del gruppo fuorilegge ha spiegato, da Londonderry (Derry per gli Irlandesi): “In Irlanda la regina d’Inghilterra è ricercata per crimini di guerra e non è la benvenuta sul suolo irlandese”.
Ho passato in quell’angolo d’Europa le festività, scegliendo di seguire i riti pasquali proprio a Derry, la città che più di ogni altra simboleggia la resistenza dei cattolici del nord all’occupazione dei protestanti britannici. Lì gli scontri tra lealisti unionisti e repubblicani cattolici culminarono, nel 1972, nel Bloody Sunday, con l’uccisione da parte delle forze britanniche di quattordici pacifici manifestanti cattolici. La promessa di nuove vittime, espressa dai dissidenti dell’Irish Republican Army nell’assolato lunedì dell’Angelo, mentre il Diamond e i camminamenti delle mura storiche erano percorsi da turisti e famigliole in gita e non si vedeva in giro neppure un vigile urbano (figurarsi i soldati inglesi!), suona ridicola e anacronistica. Altrettanto ridicolo il grande cartello attorniato da bandiere orangiste che fa mostra di sé a un tiro di sputo dalla “Porta del Vescovo”, dove il cattolico Giacomo II nel 1689 si vide rifiutare l’ingresso e fu costretto all’assedio. Strilla ai quattro venti: “Londonderry West Bank. Loyalists still under siege. No surrender”.
La violenza interreligiosa e interetnica che ha martoriato gli ultimi quarant’anni di storia irlandese, prova nuove provocazioni per tornare a giocare un ruolo, sembra non capire che il mondo è andato avanti e che non esistono più i santuari del fanatismo e dell’ignoranza che l’hanno alimentata. Dopo le decisioni assunte da Londra e Dublino negli anni ‘90, complici i leader delle comunità unionista e repubblicana di Belfast, non c’è più spazio per il rancore. Parafrasando il titolo di un romanzo dell’inglese Jane Austen, non è più il tempo del pregiudizio e dell’orgoglio contrapposti, per comunità che da qualche anno accettano di confrontarsi con una realtà dove tutti hanno diritto di cittadinanza e il dovere di rispettare le scelte della maggioranza.
Viaggiando nell’isola, si percepisce una civiltà profondamente cordiale, con la vastissima campagna antropizzata dove cavalli, pecore e mucche la fanno da padroni. E’ un territorio che conserva con rispetto le tracce ancestrali del padre dell’idealismo politico, il presidente Woodrow Wilson, e di altri presidenti statunitensi come William McKinley, James Buchanan, Chester Alan Arthur. E’ una terra di grandi santi come Patrizio e Colombano, e di romanzieri e poeti come Joyce, Yeats, Heaney. Una terra dove capita di pernottare nella Breezemount House a Coleraine, e scoprire la mattina dopo che lì ha vissuto, con i dieci cugini, Hugh Thompson, il vignettista di Charles Dickens e Jane Austen. Aveva iniziato nel linificio locale, poi i suoi disegni arrivarono a Belfast e da lì nel mondo intero.