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L’aprile del 1611 è data importante per Galileo Galilei e il sapere universale. A quarantasett’anni, lo scienziato è nella città eterna come messo culturale di Cosimo II, Granduca di Toscana. E’ famoso, richiesto dai potenti, ma ha bisogno di regolare i conti con gli avversari della curia. Pensa che potrà aiutarlo l’essere annoverato in un’Accademia, quella dei Lincei, rispettata dalla corte pontificia. Federico Cesi, princeps giovane ma autorevole dell’istituzione, gli è amico, e glielo mostra, organizzando il 14 aprile una filosofica ragunata dalle 20 fino a mezzanotte: al calar del sole, sul colle del Gianicolo, il pisano esibisce il suo primo cannocchiale per l’osservazione degli astri, un telescopio in miniatura, che ingrandisce trenta volte i corpi celesti. Due settimane dopo Galileo è ascritto nell’Accademia come linceo.
La Casa Rustica dove Galileo operò quel 14 aprile, è oggi racchiusa nei giardini dell’Accademia Americana di Roma. Il che spiega perché l’Accademia, con la sorella francese, Villa Medici, Sofitel Villa Borghese, la Fondazione Ricard, abbia voluto commemorare quella data con l’evento “The Burning Light”. E’ stata organizzata una performance in due tempi, a sei mesi di distanza, il 6 luglio 2010 (massimo punto di distanza della Terra dal Sole) e il 4 gennaio 2011 (Terra all’esatto opposto della rotazione, 300 milioni di chilometri di distanza dal punto di gennaio, con di fronte l’altra estremità dell’universo). Le immagini conclusive riprese dal telescopio (600 volte l’ingrandimento) in occasione delle due performance, velate, sono state conservate a futura memoria. Ho avuto modo di partecipare al secondo evento; la visione delle 250 torce posizionate nei giardini di Villa Medici in corrispondenza dei sentieri celesti tracciati dalle costellazioni, è risultata più attraente dei manicaretti serviti agli invitati dallo chef dell’hotel francese.
Il fatto che la celebrazione sia stata promossa da soggetti esteri, conferma l’universalità del riconoscimento al genio di Galilei. La classifica statunitense che nel 2001 elencava otto italiani tra i quaranta geni del millennio in uscita, citava il pisano al livello di Colombo e Machiavelli. E’ stato il primo a misurare davvero il tempo, muovendo dal tic tac del battito cardiaco. Ha messo microscopio e telescopio a disposizione della ricerca scientifica, per osservare empiricamente il tanto grande e il tanto piccolo, così da poter confrontare sempre le intuizioni teoriche con il dettato della realtà effettuale. Ha scritto: “Noi non doviamo desiderare che la Natura si accomodi a quello che parrebbe meglio disposto et ordinato a noi, ma conviene che noi accomodiamo l’intelletto nostro a quello che ella ha fatto, sicuri che tale essere l’ottimo e non altro” (lettera del 30 giugno 1612 a Federico Cesi). Parole che ci rotolano angosciosamente dentro, mentre guardiamo sbigottiti all’inesorabile compiersi del disastro nucleare di Fukushima.
Quando nel 1633 sullo scienziato credente scende l’ombra trista dell’abiura imposta dal sant’Uffizio (suggello dei lunghi anni inquisitori del cardinale Bellarmino, che già nel 1616 aveva trasmesso il divieto papale di affermare che “il sole sia lo centro dello mondo”, mettendo all’indice Copernico), e avanza il buio della cecità che lo accompagnerà agli ultimi giorni, forse Galileo torna col pensiero alla burning light della notte primaverile di vent’anni prima, con gli amici lincei e filosofi e dotti per lui ragunati al Gianicolo, la mente sgombra da ideologie, fondamentalismi, pregiudizi, gli occhi sulle stelle. Era stato d’aprile, nel 1611, a Roma, città dei papi.