“La mia indagine non aveva un «fatturato politico»». Mi sono imbattuto in questa frase, leggendo un’intervista resa qualche anno fa dal Dott. Guido Salvini, Giudice Istruttore dell’ultimo processo per la strage di Piazza Fontana. Il Dott. Salvini successivamente si è occupato del caso Parmalat e di terrorismo internazionale. La frase è ingombrante, specie di questi di tempi. Cito questa fonte perché si tratta di uno stimato magistrato, assegnato al Tribunale di Milano. Le sue parole sono del 2005, cioè di circa undici anni successive all’apparizione del Berlusconi politico, ma articolate in un contesto lontano dalla conflittualità suscitata dai processi a suo carico. Sicchè, il concetto di “fatturato politico” di un’indagine, così espresso, non pare possa essere liquidato come sortita propagandistica o puro e semplice nonsense, invero affioranti senza posa anche intorno a Ruby. E, perciò, autorizza alcune riflessioni a margine che. mi paiono particolarmente pertinenti alle faccende dei giorni nostri.
Dunque le indagini, secondo questa autorevole opinione, possono avere un “fatturato politico”, quanto a dire (assumendo la plastica metafora “fatturato” come significante risultato, fine ultimo) una giustificazione e uno scopo diversi e ulteriori rispetto agli unici costituzionalmente legittimi: che sono quelli di mettere capo ad un giudizio, dunque all’attuazione della giurisdizione, la pubblica funzione che cava la Legge dall’astrazione dei testi e la distende sul corpo vivo dei casi concreti. Può essere utile ricordare il passaggio dell’intervista da cui ho tratto la citazione: “Intorno al 1996 l’ex PCI, infatti, era entrato per la prima volta nel governo e non aveva interesse a rimestare il passato e soprattutto a confrontarsi con un’indagine nella quale si cominciavano a scoprire i rapporti esistenti tra Ordine nuovo e gli alleati statunitensi, cioè il soggetto dinanzi al quale l’ex PCI si stava legittimando come credibile forza di governo in Italia. Insomma, la mia indagine non aveva un «fatturato politico». Quindi, il Dott. Salvini riferiva la ritenuta, singolare, carenza della sua indagine all’infelice sincronia col quadro politico, in seno al quale essa giungeva all’epilogo. Viene da chiedersi perché lo si faceva rilevare. Forse la gnosi giudiziaria non è autonoma? O, quanto meno, può non esserlo per la materia trattata o per la qualità degli indagati? E, prima ancora, e più radicalmente, il risultato, quindi l’esito di un’indagine, cioè l’eventuale scoperta di fatti, comportamenti e responsabilità, può dipendere e, se sì, in che misura, dalla sua idoneità ad inserire quei fatti, quei comportamenti, quelle responsabilità, in un quadro politico? Parrebbe di sì. Ma, stando così le cose, sembra possibile anche una relazione reciproca fra quadro politico e indagine: nel senso che come un’indagine può volgersi ad un quadro politico, così un quadro politico può volgersi verso un’indagine. Incidendo sui suoi contenuti o, alla peggio, determinandola. E a simile conclusione, si badi, si giunge sulla base di un’opinione lealmente manifestata da un esperto in materia, insospettabile di avversione all’Ordine Giudiziario. Una volta ammessa l’ipotesi, ci si dovrà pure chiedere come può svilupparsi una simile, impropria, interazione, e non solo fra politica e indagini ma, più in generale, fra politica e processo penale. O viceversa. Distinguerò quattro situazioni, in ciascuna delle quali si annida un germe autoritario.
In primo luogo, può accadere che il quadro politico possa favorire le investigazioni. Un clamoroso esempio ci viene proprio dall’indagine più importante della storia d’Italia: “Mani Pulite”. Nel Maggio del 1992 (un mese dopo le elezioni politiche del 5 Aprile, le ultime del vecchio sistema), in un’intervista all’Espresso il Procuratore Capo di Milano, Francesco Saverio Borrelli, dichiarava:“…le indagini sono cresciute grazie ad un nuovo e particolarmente favorevole clima dovuto, forse, in parte, al fatto che le cose sono successe insieme ai risultati elettorali, e forse anche ai colpi di piccone che…sono stati assestati al sistema dei partiti”. Risalta il nesso fra clima favorevole, risultati elettorali che quel clima avrebbero in parte determinato e sviluppo delle indagini, “crescita” nelle parole di Borrelli. Ma pare difficile sorvolare sui “colpi di piccone …assestati al sistema dei partiti”, che paiono vagamente esulare dall’orbita di un’indagine preliminare (in quel caso, com’è noto, il “sistema dei partiti” non esauriva il quadro politico, o meglio, non era più la politica).
In secondo luogo, può accadere che un “contesto” politico, incida sull’interpretazione di istituti fondamentali del processo penale. Ancora Borrelli, ancora “Mani Pulite”: “Se si creano situazioni di emergenza nelle quali diviene indispensabile comprimere i diritti individuali, per ripristinare l’ordinamento giuridico, allora, nell’interesse comune, sono favorevole alle restrizioni di diritti individuali” (Micromega, Ottobre-Novembre 1995). Dove non è chiaro come l’ordinamento giuridico possa essere ripristinato tramite una sua ulteriore lacerazione, quale la restrizione dei diritti individuali certamente è. Anzi, il processo penale ha una sola giustificazione filosofica: proteggere i diritti individuali. Attività procedimentali, variamente regolate, intese all’accertamento di un fatto, ci sono sempre state: il guidrigildo, il penzolare da una corda o la delazione sistematica (la Stasi , l’Ovra ecc. ecc.). Solo che in quei contesti culturali (o sottoculturali) non c’era l’individuo da garantire, ma solo Entità superindividuali da proteggere: il Re, Dio, lo Stato. Erano prassi incerte e, soprattutto arbitrarie. Non c’era lo Stato di diritto, che è la riscoperta moderna dell’uomo e i diritti individuali, sua ipòstasi. Con il suo avvento, una materia puramente biologica e inerte è trasformata in individuo, pari ai suoi simili, perciò uomo fra gli uomini e, soprattutto, pari allo Stato: diventa cittadino. Quindi, in epigrafe, con lo Stato di Diritto il bruto diventa cittadino. La comunità così, tramite le istituzioni statali, lo Stato, è sottoposta alle stesse regole dell’individuo. Lo Stato non è etico, non è divino, è, appunto, del Diritto: o, di Diritto. E’ lo Stato dell’uomo e per l’uomo: temprato e nobilitato dalla sua caduca finitezza. E quando la comunità, in quanto Stato, chiede conto al cittadino lo fa con il processo penale, il luogo dei diritti individuali. I diritti individuali sono la democrazia, il processo penale è democrazia. Comprimere i diritti individuali significa comprimere la democrazia. Sempre. Non esistono situazioni di emergenza che possano giustificare una deroga a questi principi. Uscire dal processo penale significa uscire dalla democrazia.
In terzo luogo, può accadere che il quadro politico ostacoli o impedisca le indagini. Le può ostacolare o impedire patologicamente: mediante l’occultamento di prove (per esempio ad opera di funzionari infedeli o mestatori a vario titolo), l’interferenza amministrativa sugli investigatori (trasferimenti, rimozioni) o altro. Ma le può impedire anche fisiologicamente (non ostacolare), come quando il Pubblico Ministero è sottoposto all’Esecutivo e si ritiene che una o più indagini possano ledere interessi basilari per la preservazione dello Stato (i c.d. interessi nazionali): accade negli Stati Uniti o in Francia, fra gli altri. Ora è evidente che, in casi del genere, tanto più condivisa e definita risulterà la nozione di interesse nazionale, quanto minori saranno le possibilità che il divieto di indagine si riduca in abuso. Ma l’abuso ha ancora dell’uso: a questo, con le opportune correzioni, è sempre riconducibile. Senza contare la sanzione politica. Impedire un’indagine può arrecare una grave compromissione all’ordinamento democratico, ma è una situazione reversibile. Disconoscere o compromettere un diritto individuale, (per esempio: il diritto di difesa, il diritto alla libertà personale, il diritto alla propria autonomia patrimoniale) non compromette l’ordinamento democratico, lo sovverte, lo elimina, lo annulla. Perché annulla l’individuo, cioè l’uomo, e lo ripiomba nella indefinita e indifferente anomia in cui è stato tenuto nei secoli più bui della nostra storia, e in cui è tuttora tenuto in Paesi non democratici.
In quarto luogo c’è Ruby. Perché il caso di Berlusconi è assolutamente unico. L’individuo è molto ricco e, per quanto il denaro possa consentire, potente. E’ anche capo del partito di maggioranza relativa e della coalizione al governo. Infine, è proprietario di un vasto gruppo massmediatico. La triplice condizione gli permette una capacità di resistenza unica e infungibile. Tale capacità di resistenza coinvolge anche il potere legislativo. Solo che, anche ammettendo tutte le critiche mosse, nel corso di questi anni, alle leggi approvate dal Centro-Destra in materia penale e processual-penale, non sarebbe per ciò solo dimostrata la loro turpitudine istituzionale. Impedire l’Appello per il caso di assoluzione (double jeopardy lo chiamano nei paesi di Common Law, sarcastici verso la vessatoria abitudine continentale), prevedere la querela (cioè il necessario estrinsecarsi della privata volontà punitiva) in contesti aziendali di non rilevanti dimensioni, proporre succedanei all’immunità parlamentare, ridurre i termini di prescrizione, ridimensionare l’invasività delle intercettazioni (telefoniche o d’altro genere), impedire che queste alimentino il pubblico dileggio e compromettano la serenità del giudizio con l’amplificazione incontrollata dei loro presunti contenuti, e così via, non sono scelte legislative univocamente antidemocratiche. Possono essere criticabili, vale a dire, possono alimentare il confronto anche duro di opinioni e, per questa via, finire con l’essere, per ciò solo, linfa per la democrazia; ma in nessun caso possono da sole lederne l’ordinamento. Neanche nel caso, statisticamente estremo, in cui oggettivamente refluiscano anche su posizioni di uno o più esponenti dei pubblici poteri, o anche del Presidente del Consiglio. Intendiamoci: è troppo facile in questi casi rilevare l’anomalia, la grave anomalia che ne viene. Ma, se si devono tenere fermi i principi, è ancora un’anomalia curabile, emendabile. Fuori Berlusconi, fuori l’anomalia. E, fatto questo, potrebbe pure risultare che questo Centro-Destra, tendenzialmente sterile, ci lasci delle buone leggi. Ma quando si consolida quotidianamente, il giornalismo di trascrizione (copyright, Luciano Violante), che diseduca, incattivisce, avvilisce e disinforma, quando s’invoca la vanificazione del giudizio, la lapidazione mediatica (peggio ancora se sulla base di spinte e pulsioni sessuofobico-moralistiche), quando si approva un’incessante ed esaltato movimentismo inquisitorio, non solo si esce dall’ordinamento democratico, ma si lasceranno alle giovani generazioni le macerie di pessime leggi, pessime prassi istituzionali, pessime sottoculture. Le quali, senza lo strabismo indotto da Berlusconi, consegneranno a questo Paese un congegno pericolosissimo, già temibile se tarato su uno straordinario caso di potere e abilità, ma semplicemente mostruoso se immaginato mentre opera nei confronti di singoli, inermi, cittadini. Sarebbe la definitiva retrocessione nel buio di premoderni recessi, nell’asfissia delle pire purificatrici e dei pulpiti oracolanti, nell’abominio della violenza togata. Sarebbe la morte della democrazia. Non esistono scelte facili. Sarebbe sempre preferibile essere sani che malati (scelta facile). Ma è certo meglio essere malati che morti (scelta difficile).Di fronte a questa deriva, persino il presunto Cavaliere di Eyes Wide Shut merita una difesa.