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Nella foto, un lago asiatico completamente ricoperto da rifiuti
I giapponesi dicevano 12. Gli americani 50. La distanza minima di sicurezza intorno alla centrale nucleare di Fukushima Daiichi, i cui reattori danneggiati hanno causato la fuoriuscita di emissioni radioattive, ha tenuto col fiato sospeso molti governi della regione.
Quando il Dipartimento di Stato americano ha consigliato ai cittadini statunitensi in Giappone di non spingersi oltre i 50 chilometri dall’epicentro dell’incidente, russi e cinesi hanno pensato che, stabilendo il limite di sicurezza a soli 12 chilometri, i giapponesi stessero cercando di minimizzare la gravita’ della situazione.
I venti del Pacifico hanno finito col trasportare la nube radioattiva in direzione opposta, oltre l’oceano, verso la costa occidentale degli Stati Uniti dove, a quanto ci dicono, la diradazione delle particelle radioattive e’ tale da non creare pericoli di alcun genere.
Sara’ anche vero ma questa radioattivita’ non e’ sparita: e’ ancora qui, con noi, nell’ambiente cosi’ come il fatto che non siano piu’ visibili, non significa che siano sparite le migliaia e migliaia di barili di petrolio che si sono riversati nel Golfo del Messico o le emissioni di scarico provenienti dalle auto e fabbriche del mondo o le tonnellate di rifiuti che produciamo quotidianamente.
In superfice, il graduale avvelenameto del pianeta non sara’ particolarmente visibile a occhio nudo ma cio’ non lo rende meno reale anche se noi tutti, soprattutto nelle societa’ avanzate, tendiamo a relegarlo in un remoto immaginario collettivo da film di fantascienza.
Dodici chilometri. Cinquanta chilometri. Mille chilometri. I numeri che inevitabilmente accompagnano i disastri ambientali, le crisi “acute” che si susseguono con sempre maggiore frequenza, tendono a circoscriverle, a delimitarle non solo fisicamente ma anche e soprattutto psicologicamente per rassicurarci sul fatto che siano accadute “altrove” e che non avranno percio’ effetti su di noi, sull’immediatezza della nostra realta’ circostante.
Ma le dimensioni attuali dello sviluppo produttivo e industriale stimolato dal nuovo consumismo globale sono tali da rendere illusoria l’idea stessa di una “distanza di sicurezza”. I danni ecologici provocati dalle migliaia di barili di greggio finiti nel Golfo del Messico o dall’acqua radioattiva traboccata nel Pacifico dai tunnel di contenimento della centrale giapponese prima o poi finiranno per presentare il conto alla specie che siede in cima alla catena alimentare.
L’assalto perpetrato negli ultimi decenni dall’uomo all’ecosistema (e quindi a se’ stesso…) e’ solo destinato ad intensificarsi nel prossimo futuro, quando miliardi di persone in Asia e in America Latina avanzeranno legittime pretese di uno stile di vita occidentale, consumistico, basato sul principio “usa e getta” e percio’ fondamentalmente insostenibile.
Vent’anni fa, il mondo occidentale, “libero” e democratico, ha gioito con ragione di fronte al crollo dell’autoritarismo comunista nell’Europa dell’est e alla graduale metamorfosi di quello cinese che, trasformando lo stile di vita per milioni di persone, ha anche legato le sue sorti alle nostre in un nuovo rapporto di simbiosi produttiva, commerciale e politica.
Ma quella che all’epoca fu definita come il trionfo della democrazia, si e’ rivelata per lo piu’ il trionfo del mercato; di un nuovo consumismo allargato; di una globalizzazione accellerata che inaugura un nuovo periodo di “distruzione creativa” in cui la sfida principale per l’uomo e’ legata all’ottenimento di nuove fonti energetiche e all’utilizzazione ottimale di quelle gia’ esistenti.
Il Comunismo come modello sociale, politico ed economico e’ fallito a causa dell’astrattezza dei suoi ideali. Il Consumismo come modello di sviluppo occidentale e ora globale, sembra invece destinato a misurarsi con i limiti stessi di sostenibilita’ ambientale ed ecologica del pianeta.
Paradossalmente, le insidie contenute in questa sfida futura sono molto piu’ formidabili della contrapposizione politica e ideologica tra l’Occidente e il blocco sovietico di qualche decennio fa. In quest’ultimo caso infatti la spinta al cambiamento e’ venuta dall’interno, dal desiderio da parte delle popolazioni dell’Europa dell’Est di liberarsi da una condizione di disagio ed oppressione e per ottenere uno stile di vita piu’ ricco e confortevole.
La nostra sopravvivienza futura legata alla sopravvivienza del nostro ecosistema invece, potrebbe dipendere dalla nostra capacita’ di fare marcia indietro su uno stile di vita che e’, nel lungo periodo, insostenibile. Un obiettivo molto piu’ difficile perche’ fondato sulla nostra potenziale capacita’ di accettare sacrifici, di fare di piu’ con meno, di rinunciare a molte delle cose che al momento diamo per scontate. In un certo senso quindi, e’ quasi come tentare di liberarsi da una dipendenza, uno sforzo gia’ di per se’ difficile ma reso ancora piu’ arduo dall’operato dei tutti quei potentati che basano la loro fortuna e il loro potere sulla perpetuazione dello status-quo.
Il corollario culturale del capitalismo di stile occidentale che ha ormai preso piede nel resto del mondo, e’ quello della logica del profitto a tutti i costi. Chiunque abbia un’esperienza diretta del mondo aziendale americano sapra’ che l’obiettivo strategico che ne ispira la filosofia imprenditoriale e’ quello della crescita continua: i ricavi e i guadagni di un anno devono sempre eccedere quelli dell’anno precedente perche’ le quotazioni in borsa e i dividendi degli azionisti dipendono da questa crescita continua.
Purtroppo in natura il concetto di crescita continua (cosi’ come quello di “rifiuto”) non esiste. Tutto e’ strutturato in rapporto a ricorrenze cicliche basate su una fase di crescita, maturita’, decadimento ed estinzione. C’e’ solo una cosa in natura, la cui caratteristica peculiare e’ proprio quella della crescita continua: il cancro.