L’indirizzo è Via Cascina Belgioioso 120, Bollate, cintura metropolitana di Milano. L’edificio che appare in una fredda mattina è un grande parallelepipedo di cemento bianco. Le finestre sono molto piccole, la rete di recinzione molto alta, e grande è il cancello elettrico che fa passare furgoni con la scritta “Polizia Penitenziaria”.

C’è anche, proprio di fronte al parcheggio, un’entrata con una sala d’attesa spesso affollata: bambini intabarrati nei passeggini, donne, anziani, gente che in questo “brutto parallelepipedo” ha sicuramente un padre, un figlio, un parente, un amico.
Perché il posto (l’avrete capito) è un carcere, quello di Bollate, uno dei più all’avanguardia in Italia, dove da tempo si rieduca attraverso tante attività, dall’orto botanico alla cura dei cavalli, dalla musica alla biblioteca (che è la più grande d’Italia e forse tra le maggiori d’Europa, tra l’altro gestita benissimo dagli stessi detenuti). Qui dentro, in questo carcere che si vede benissimo anche dall’autostrada Milano-Varese, c’è un ristorante, il primo mai organizzato “dentro” o “dietro” le sbarre in Italia. L’hanno chiamato InGalera, e mai nome calca così a pennello. Ma è stata anche una sfida che non ha eguali in Europa e nemmeno nel mondo, almeno sino ad oggi (alle Vallette di Torino è partito da un paio di anni un progetto simile che si chiama “Liberamensa” e si rifà all’idea di Bollate).

Silvia Polleri, la signora che ha avuto l’idea del ristorante aperto a tutti ma “dentro una prigione”, racconta che non è stato troppo difficile. “La cosa più complicata — ci dice — è stata forse il nome da dargli. Abbiamo chiesto a copy, creativi, pubblicitari. Poi ho avuto una folgorazione, le cose giuste sono quelle più ovvie. Così il ristorante che sta dentro il carcere lo abbiamo chiamato InGalera”. Ch ci va, capisce subito che il menù non è quello di un ristorante ordinario, di un posto qualsiasi. Ambiente curato, arredi di qualità, nessuna concessione alla banalità. Né nei piatti né nella cantina. L’atmosfera è elegante, essenziale, niente affatto leccata.
Pareti bianche, tende bianche, tavoli di legno chiaro, sedie bianche, lunghe tovaglie bianche, tre bicchieri col calice davanti a ogni coperto. Forse, la cosa che colpisce di più sono i manifesti alle pareti: il Sylvester Stallone di in “Fuga per la vittoria” ; Clint Eastwood di “Fuga da Alcatraz”; Tom Hanks ne “Il miglio verde” e via di questo passo. Diciamo che quando si passa la soglia (con un pensiero del tipo “Ma poi uscirò di qua?) sembra di entrare in un bel locale qualsiasi, un locale magari “stellato”. Lindo, silenzioso, spazioso.

E perfino il New York Times, che ha mandato qui un inviato a raccontarlo, ha concluso che, almeno una volta, in galera vale proprio la pena di entrare. A mezzogiorno c’è il pranzo veloce, piatto unico a 12 euro, tovagliette di carta che però sono oggetti di culto perché ognuna è la foto di una diversa prigione. Alcatraz, quello in pietra di Dorchester, lo Spielberg di Brno, e poi (per l’Italia) L’Asinara, Poggioreale, L’Ucciardone, Regina Coeli, San Vittore. Per mangiare la sera bisogna prenotarsi con settimane e settimane di anticipo e si ordina à la charte, menù molto raffinato e ottima carta dei vini.

Racconta Polleri che ormai ogni giorno quasi cento persone entrano in carcere per venire a mangiare, ed è la prima volta che il mondo è invitato “a venire dentro”. “Di solito il carcere chiede qualcosa alla società. Noi, alla società, vogliamo dare qualcosa. E poi è importante per i detenuti, perché lavorando qui imparano un mestiere – e sono tutti pagati – imparano la disciplina e la cultura del buono e del bello, imparano a rispettare le regole. Quando escono hanno già la possibilità di ricominciare. Come cuochi, camerieri. Grazie a InGalera. Non è bello?”
Idea bellissima dunque. Certo è che alla fine della cena viene naturale porsi una domanda, cioè che succede se qualcuno non volesse pagare il conto? Risposta: “Nessun problema. Chi paga esce dalla porta di destra e ritorna in strada. Chi non volesse pagare, passa dalla porta di sinistra. Per la cronaca, posso dirvi che è quella che porta direttamente “dentro”. In carcere.”