
Il Belìce che non c’è più per me è una decina di fotografie in bianco e nero e le memorie sbiadite e confuse di mia madre bambina, che dopo quella notte fra il 14 e il 15 gennaio 1968, dirà addio per molti anni – i suoi migliori in effetti – alla sua terra. E alle strade del suo paese siciliano, che non rivedrà mai più.
Notte insolita quella del sisma, notte di neve che tacita ammanta ogni cosa e prelude allo squarcio. Dopo la prima forte scossa, “io e la mia famiglia e altri vicini lasciammo le nostre case e andammo verso la campagna, per rifugiarci in una stalla, dove accendemmo un fuoco per scaldarci – rievoca spesso quei momenti drammatici mia madre – Pensavamo che se fosse venuta un’altra scossa, la paglia avrebbe attutito l’urto e che ci saremmo salvati… Provvidenziale fu l’arrivo di mia zia che si mise a gridarci di uscire, che saremmo morti tutti sotto le macerie, se fossimo rimasti ancora lì dentro. Talmente insistette, che alla fine seguimmo il suo consiglio”. Una vera benedizione. “Qualche minuto dopo, il casolare si sbriciolò sotto i nostri occhi, e gli animali dentro rimasero schiacciati. Corremmo più forte che potemmo, cercando di raggiungere l’altopiano, mentre inciampavamo nel buio e nella paura di essere inghiottiti da un momento all’altro da una voragine… Alle prime luci dell’alba, si udì un boato fortissimo, seguito da un polverone: dall’alto vedemmo tutta Salaparuta, in un sol colpo, cadere giù. Poco più di un attimo, e del nostro paese non rimaneva più niente”.

Sono trascorsi cinquant’anni dal terremoto della Valle del Belìce, cinquant’anni in cui mia madre ha fatto in tempo ad andare e tornare dall’America per ritrovare, nei primi anni Ottanta, le stesse baracche in amianto costruite dopo il sisma e le stesse macerie. E il suo paese? Che ne è stato del suo paese? Delle sue viuzze lastricate in pietra, della Chiesa madre e del corso dove passeggiava la domenica? Spostato da un’altra parte, “ricostruito” qualche chilometro più in là. E così Gibellina e così Poggioreale. Oggi paesi fantasma senza più identità che si svuotano, mentre le architetture avveniristiche erette nei nuovi centri si stagliano nitide su un orizzonte deserto. Sono trascorsi cinquant’anni e c’è chi invece, dagli Stati Uniti o dall’Australia non è mai tornato. E c’è chi con le macerie che insistevano – e in parte ancora insistono – sul paesaggio urbano, ha imparato a convivere, come a Montevago. Chi ancora fa i conti – anche sulla propria pelle – con le tonnellate di amianto da smaltire.
E poi ci sono i giovani, i grandi assenti. Quelli che come me, nel giorno in cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella arriva nel mio paese, Partanna, per onorare le vittime del sisma nel cinquantesimo anniversario, provano a seguire la cerimonia in diretta streaming, dalla camera di un appartamento in condivisione di un’altra città. In Italia. In Europa. Nel mondo.

Parlano di costruire bellezza, amministratori e politici che arrivano a Partanna. Di destini comuni. Di sprechi e ritardi sotto gli occhi di tutti, certo. Ma anche di sfiducia, scetticismo e rassegnazione da trasformare in speranza. Adesso, dicono, serve completare la ricostruzione mai terminata e ripartire dallo sviluppo.
Mi preparo per andare a lavoro, ho già smesso di seguirli da un pezzo, mentre sullo schermo scorrono le immagini dei primi soccorsi in quel 15 gennaio 1968.“C’è nessuno?”, domanda una voce che rimbomba fra i detriti in cerca di superstiti. Moriranno in 300, 100mila gli sfollati, in quel primo terremoto documentato dai media.

Oggi il Belice è parecchio cambiato, nel paesaggio e nell’anima. Chi “ha mangiato ha mangiato” in questo Sud “ladrone e sprecone”. Poco importa se i finanziamenti arrivati sono ben al di sotto di quelli stanziati per altri eventi sismici di simili danni e proporzioni. Quel che è certo, però, è che non sono serviti a creare l’agognato sviluppo.
Disatteso, in gran parte, il piano per la rinascita della Valle basato sul concetto di città-territorio, che avrebbero dovuto integrare ricostruzione degli insediamenti, sviluppo dell’agricoltura, arte, valorizzazione dei prodotti locali e viabilità capillare e servizi. Scelte discutibili guidarono il trasferimento totale o parziale dei centri colpiti in siti che dovevano risultare più sicuri geologicamente, ma che in realtà non lo erano. E che oggi appaiono sconnessi e già in decadenza, pur risultando incompiuti.

E penso a Danilo Dolci, a Lorenzo Barbera e alle loro lotte, a quanti negli anni non si sono arresi e hanno denunciato i brogli, le speculazioni edilizie e mafiose, le ricostruzioni imposte dall’alto, ma anche i trasferimenti ingiustificati e indiscriminati della popolazione, vessata dalle tasse quando aveva perso tutto. Costretta a emigrare, oggi come allora. Penso poi alle conquiste, ai comitati antileva che si batterono per convertire il servizio militare obbligatorio in servizio civile per ricostruire il loro territorio. A chi si è speso per ottenere quel che lo Stato doveva e deve alla Valle, a chi si è rimboccato le maniche per ripartire dalle potenzialità dei suoi luoghi. Per rilanciarne il patrimonio artistico-culturale e per fare memoria viva di quel che è stato. Perché non accada mai più.

Penso, ancora una volta, alle iniziative dal basso. Quelle che forse fanno meno rumore, ma che danno anche i frutti più buoni e insperati. Come nel caso dei cittadini dell’Associazione Poggioreale Antica che hanno scelto di mettere in salvo, pietra dopo pietra, quel che restava del loro vecchio centro. Compresi i cimeli delle famiglie che in quelle case e tra quelle strade avevano vissuto. Costruendo una rete con quanti sono stati emigrati nel Nuovo Continente. E penso che il Belìce no, non è morto. Non ancora, non del tutto almeno.
E che forse, in questo 50esimo, si può ripartire da una riconquista simbolica. Quella del nome. Che – in tv, l’hanno detto – non è Belice, come i media di allora ribattezzarono la Valle sconvolta dal terremoto, ma Belìce, nella pronuncia più corretta. Chiamare le cose col loro nome: forse da qui si può ripartire, e da quanti quei territori li conoscono e li vivono. E sanno come valorizzarli. Forse, per costruire la bellezza, o per ritrovarla, è proprio attraverso i loro occhi che bisogna guardare.