In una traversa vicino piazza di Spagna, a Roma, in via della Croce, c’è una piccola trattoria. Pochi i posti a sedere nella sala interna e fuori ancor meno. A differenza di tutti gli altri locali della via, ormai diventata molto turistica, di fronte la porta d’entrata non c’è nessun addetto con menù in mano a chiamare con stentati accenti inglesi, spagnoli o magari orientali turisti bisognosi di rifocillarsi. Si tratta della Fiaschetteria Beltramme e non è un posto come gli altri. Una targa del Ministero dei Beni Culturali l’ha riconosciuto monumento di interesse nazionale. I tavoli e le sedie sono sempre gli stessi, come i quadri appesi. Sono gli stessi degli anni in cui Federico Fellini ed Ennio Flaiano vi andavano per mangiare e vi sceneggiarono il film La Dolce Vita ed Otto e mezzo. “Se queste mura potesseno parlà’” mi dice il cameriere alla mie richieste di informazioni sul luogo, ed in effetti quei muri già dicono qualcosa con i quadri di tanti artisti che li regalavano o li lasciavano per pagarsi da mangiare e bere: disegni, schizzi, vignette, tovaglie firmate. Lo dice pieno di orgoglio come se avesse la consapevolezza che lì si è un fatto un pezzo di storia d’Italia, anzi le storie d’Italia. L’hanno fatta dal basso: Pier Paolo Pasolini, uno dei clienti col tavolo fisso, come pure Mario Soldati, Renato Guttuso, Mario Schifano, Alberto Burri, Mino Maccari, Alberto Moravia, Italo Calvino, Vittorio Gassman e tanti altri.

Nella pagina Facebook della fiaschetteria si legge con tanto di foto: “Federico Fellini, assiduo cliente, si sedeva sempre al solito posto in compagnia di Ennio Flaiano e tra un pasto e l’altro osservavano le persone mentre mangiavano. Si racconta che sul finire degli anni cinquanta sono rimasti per tre mesi oltre l’orario di chiusura e a volte si sono spinti fino alle tre o alle quattro del mattino, dando alla luce la sceneggiatura del film La Dolce Vita, il grandissimo capolavoro della storia del cinema mondiale.”
E se in quella piccola stanza si creavano le storie fatte da italiani sugli italiani, a meno di due chilometri, presso la taverna Flavia, quelle storie diventano le storie di altri, marchiate e possedute da non italiani. La frequentano: Liz Taylor, Audrey Hepburn e Hugh Grant che girano Vacanze romane, e poi Grace Kelly, Ava Gardner, Lauren Bacall, Jane Fonda, Esther Williams, Natalie Wood, Frank Sinatra, John Wayne, Burt Lancaster, Yul Brynner, Alain Delon, Burth Reynolds, Gregory Peck, David Niven. La Dolce vita è un fermento di relazioni che trovano luoghi diversi: chi l’ha prodotta e chi la diffonde consumandola. I non italiani della dolce vita contribuiscono a renderla tale, come se quell’immaginario non avesse padroni assoluti ma solo persone in grado di coglierlo, viverlo e diffonderlo.
Per Mimmo Cavicchia, storico proprietario della Taverna Flavia, la “vera” Dolce vita nacque lì da lui, non in Via Veneto né in altri luoghi. Perché, come spiega; “ I vip del cinema venivano a cena, poi si trasferivano ai bar di via Veneto. E sa perché? Soffiava il ponentino, che non c’è più, spazzato via dal cemento e dai bussolotti dei caffè alla moda”. Era uno spazio relazionale che creava status. Nel locale più ampio del precedente c’è una stanza dedicata completamente a Liz Taylor, che si dice abbia flirtato con lo stesso Cavicchia, come spiega in un intervista rilasciata al quotidiano romano Il Messaggero: “Feci di peggio. Liz mi disse: “Facciamo un bagno”. Poi, chiuse gli occhi, gli splendidi occhi viola, e mi sussurrò: “Kiss me Mimmo”, baciami Mimmo. E lei? Li chiusi anch’io, e goffamente bisbigliai: “Why?” Perché? Come potevo baciare Liz? Liz era il mio mito e i miti sono sacri, non si profanano”[1]. In quel “Kiss me Mimmo” ci sta tutto il mondo, che andiamo descrivendo. Non sarà difficile scovare la somiglianza del gioco di seduzione con quanto Fellini fa pronunciare ad Anita Ekberg appena immersa nelle acque di Fontana di Trevi: “Marcello, come here, hurry up”. È un soft power di chi si lascia sedurre e al tempo stesso diventa seduttore. Dicendo: “Sono stata io a rendere famoso Federico Fellini, non il contrario”, quella che sembrò una sua affermazione provocatoria, a noi sembra racchiudere una verità.
Ecco che l’immaginazione di Fellini diventa realtà in un gioco continuo di sguardi incrociati.

Perché il tema della Dolce vita ci è caro? Perché designa l’italian way of life, diventando un brand che attraversa i confini e si sedimenta in altri contesti, proprio per solcare e ribadire che seppur l’Italia ne sia luogo d’origine, essa è una sorta di atmosfera che può essere riprodotta e alimentata in altri luoghi anche da chi italiano non è.
Franco Cassano in un eccezionale libretto (1998), Paeninsula L’Italia da ritrovare, riappropriandosi del significato piuttosto che del significante spesso abusato, descrive la vita dolce: “ si tratta del rapporto morbido con la vita che cerca di renderla dolce, che spinge a cercare i lati da cui se ne può afferrare il piacere fuggitivo. (…) Quando questo edonismo non si appaga fermandosi alla prima stazione e non si siede sui primi applausi, ma si raffina e diventa esigente, quando la sensualità incrocia il rigore e sa diventare opera”[2].
Lo diciamo con una vena ironica, non senza una certa volontà di provocazione, ma non credo possa essere un’ utopia pensare che tutto questo immaginario globale, cristallizzatosi intorno alla Dolce Vita, meriterebbe di diventare patrimonio universale immateriale dell’UNESCO.