Il 12 ottobre 2017 gli Stati Uniti d’America hanno annunciato la propria decisione di voler abbandonare l’Unesco, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura. A partire dal 2019, il paese manterrà lo status di “osservatore esterno”. Il motivo ufficiale di questa decisione è stata l’accusa, rivolta all’agenzia Onu, di essere “anti-israeliana”.
Una scelta che deriverebbe dall’inasprirsi dei rapporti tra l’Agenzia di Parigi (sede dell’Unesco) e l’amministrazione di Washington dopo la decisione di attribuire la spianata delle Moschee, o Monte del Tempio, alla cultura palestinese. Già all’inizio dello scorso mese di luglio Washington aveva anticipato l’intenzione di riesaminare la propria partecipazione all’Unesco dopo la decisione dell’agenzia di inserire la città vecchia di Hebron, nella Cisgiordania occupata, nell’elenco dei siti Patrimonio mondiale dell’umanità. “L’ultima d’una lunga trafila di azioni insensate” ha dichiarato Nikki Haley, ambasciatrice degli USA alle Nazioni Unite. Il Dipartimento di Stato Americano ha dato l’annuncio (come ormai suo consueto) con un tweet.

Immediata la risposta della direttrice generale dell’Unesco, Irina Bokova, ha espresso “profondo rammarico” per la decisione degli Stati Uniti d’America: “At the time when conflicts continue to tear apart societies across the world, it is deeply regrettable for the United States to withdraw from the United Nations agency promoting education for peace and protecting culture under attack.” “This is a loss to the United Nations family. This is a loss for multilateralism” ha postato cinguettando anche lei su Twitter. Sono in molti a pensare che la decisione di uscire dall’Unesco (e di comunicarlo così enfaticamente) non sia dovuta a problemi culturali o “legati al Patrimonio dell’umanità”, ma a molti altri motivi. Il primo potrebbe essere cercare di recuperare consensi dopo il fallimento nel tentativo di rimpiazzare la riforma sanitaria, l’Obamacare del suo predecessore. E poi la spinosa questione degli accordi sul nucleare con l’Iran (improvvisamente il pericolo “Nord Corea” pare essere passato in secondo piano). Quindi le polemiche sugli accordi per la vendita di armi all’Arabia Saudita (che ha deciso di fare un giro al mercato delle armi del pianeta e ha cominciato a fare shopping per miliardi dollari in Russia). E ancora, la discussione sempre aperta sulle “stanze della tortura della CIA” come le ha chiamate Larry Siems su The Guardian in siti come la prigione Cobalto in Afganistan. Un problema che va avanti da decenni ma che nessun presidente pare essere in grado di risolvere. Il problema “Palestinese” è solo l’ultimo di una lunga serie. Una questione spinosa che si era già manifestata con la risoluzione 67/19 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite (adottata il 29 novembre 2012) che concedeva lo status di osservatore permanente allo Stato di Palestina. Poi nel 2015 fu il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ad alzare la bandiera della Palestina al Palazzo di Vetro ringraziando pubblicamente i 119 Stati membri dell’Assemblea Generale dell’Onu che avevano votato a favore della risoluzione che lo aveva consentito. Tra questi ovviamente non c’erano né gli Usa né Israele.

Naturalmente, allora come ora, Washington si è guardato bene dal lasciare le Nazioni Unite: il peso di questa organizzazione a livello planetario (specie quando si vuole compiere questa o quella “missione di pace” e bombardare un altro paese senza neanche dichiarare guerra) è irrinunciabile per gli Usa. Meglio, quindi, spostare lo scontro su un piano istituzionalmente meno pesante. Come l’Unesco. Del resto non è la prima volta che gli Stati Uniti d’America si lagnano delle NU e protestano scaricando le colpe sull’Unesco: nel 1984, in un periodo di grandi cambiamenti nei rapporti con l’Unione Sovietica, fu Ronald Reagan ad annunciare la decisione degli USA di abbandonare l’organizzazione. In quell’occasione a commentare la decisione fu Jeane Kirkpatrick (che la Haley ha citato nel proprio discorso: “Come dicemmo nel 1984, i contribuenti americani non devono più pagare per politiche ostili ai nostri valori”). Ci vollero vent’anni perché, nel 2003, George W. Bush decidesse di farvi rientro. Ma pochi anni dopo, nel 2011, fu Barak Obama a tornare nuovamente indietro sospendendo i contributi americani all’Unesco proprio dopo l’ammissione della Palestina alle NU come Stato. Anche Israele ha tenuto ad informare i media di aver preso la stessa decisione. L’ambasciatore israeliano Danny Danon ha dichiarato che il ritiro degli Stati Uniti è stata la prova che le “assurde e vergognose risoluzioni contro Israele hanno conseguenze”. “Oggi è un nuovo giorno alle Nazioni Unite dove c’è un prezzo da pagare per la discriminazione contro Israele”.
Intanto, a Parigi, sono iniziati i lavori per decidere chi sarà il nuovo direttore generale. Ad occupare il posto di Irina Bokova sono i candidati di Cina, Vietnam, Azerbaijan, Francia, Egitto, Qatar, Libano e Iraq. In testa ai pronostici ci sono Hamad bin Abdulaziz al-kawari del Qatar, Audrey Azoulay, francese, e l’egiziano Moushira Khattab. Proprio questo potrebbe essere uno dei (tanti) motivi nascosti che hanno spinto Usa e Israele a dichiarare di voler lasciare l’Unesco: il candidato del Qatar in testa alle votazioni, infatti, non sarebbe ben visto né da Israele né dagli Stati Uniti. Anche la candidata dell’Egitto recentemente ha risposto ad un tweet dicendo che neanche lei è favorito da Israele. Ma forse la causa principale non è ideologica né geopolitica, bensì meramente finanziaria. Chiunque sia il nuovo direttore generale dell’Unesco dovrà vedersela con molti problemi e tra questi uno dei principali saranno le finanze: come molte altre agenzie delle Nazioni Unite anche l’Unesco, infatti, sta attraversando una grave crisi economica. E di fronte ad altre priorità come i diritti umani o la fame del mondo reperire fondi diventa sempre più difficile. Un problema non secondario, specie considerando che, dal 2011 (ovvero da quando la Palestina è stata ammessa come membro), Washington ha “congelato” i propri versamenti all’Unesco. Arretrati per di centinaia e centinaia di milioni di dollari, che, su un bilancio in crisi, pesano come macigni.
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