Certaldo Alto è borgo che ancor oggi conserva splendidamente l’urbanistica medioevale: a parte i lavori di ristrutturazione che nel Quattrocento hanno trasformato il mastio in palazzo Pretorio (o dei Vicari), tutto è rimasto intatto e si passeggia oggi come nel Medioevo. Manca la (poi) tradizionale grande piazza e il fulcro è rappresentato dalla lunga via Boccaccio, il luogo pubblico di eccellenza nella concezione alto-medioevale; due slarghi minori sono piazza della SS. Annunziata, creata all’inizio del XIX secolo pavimentando un’area prima destinata ad orti, e piazza SS. Jacopo e Filippo, di fronte all’omonima chiesa, in origine cimitero del convento, fino al 1633. In tale edificio religioso, a raccolta navata unica, riposa Giovanni Boccaccio (1313-’75) che, con Dante e Petrarca, conclude la Trinità della letteratura italiana, matrice linguistica e stilistica nei secoli.
«Han sub mole iacent cineres ac ossa Iohannis: Mens sedet ante Deum meritis ornata laborum Mortalis vite. Genitor Bocchaccius illi, Patria Certaldum, studium fuit alma poesis» fu il suo epitaffio, che si legge sulla tomba: «Sotto questa lastra giacciono le ceneri e le ossa di Giovanni: la mente si pone davanti a Dio, ornata dai meriti delle fatiche della vita mortale. Boccaccio gli fu genitore, Certaldo la patria, interesse l’alma poesia».
Sicuramente egli riposa nel suo amato paese, meno certo è il sito, dato che – assai prima di Napoleone e del suo editto di Saint Cloud (Décret Impérial sur les Sépultures, 12 giugno 1804) – nell’agosto 1787 Pietro Leopoldo granduca di Toscana aveva vietato la sepoltura nelle chiese, salvo che in cappelle gentilizie isolate e, in conformità, anche il sepolcro del poeta venne aperto e le ossa traslate e sparse nel cimitero adiacente. Il primo ad indignarsi per tale dissoluzione fu lord Byron, nel IV canto del “Childe’s Harold Pilgrimage” (1818): «Boccaccio to his parent earth bequeath’d/His dust, — and lies it not her Great among,/With many a sweet and solemn requiem breathed/O’er him who form’d the Tuscan’s siren tongue?/That music in itself, whose sounds are song,/The poetry of speech? No; — even his tomb/Uptorn, must bear the hyaena bigot’s wrong,/No more amidst the meaner dead find room,/Nor claim a passing sigh, because it told for whom!». Nel 1913 don Alessandro Pieratti, preposto di Certaldo, dichiarò di avere scoperto la vera tomba durante lavori di ripristino della vecchia canonica; nel 1921 l’ingegner Antonio Marzi attribuì al dotto certaldese un teschio rinvenuto in una parete di casa Boccaccio e nello stesso anno la direzione generale delle antichità e belle arti affidò l’incarico di accertamento delle ossa ad una commissione di cinque membri, presieduta da Domenico Tordi.
Interessante documento (si assapora il set della Cena delle beffe di Blasetti), un cinegiornale Luce del 15 settembre 1937 racconta le celebrazioni di Certaldo per il concittadino illustre, da comparare con un successivo servizio del 3 novembre 1949. In quest’ultimo si vede la teca con le ossa, di cui oggi, però, si son perse le tracce, nonostante siano passati non più secoli, ma pochi decenni.
Nel 1949 si tenne un meeting nazionale di studi per l’accertamento e il riconoscimento ufficiale della tomba, il “Convegno dei Dotti”; tuttavia dopo quattro anni il maresciallo dei Carabinieri Giuseppe Fontanelli, durante una riunione della società storica della Valdelsa, dimostrò che il teschio identificato come quello di Boccaccio proveniva invece dagli scavi nella zona archeologica locale.
Il periodico “Miscellanea storica della Valdelsa” relativo alle annate 1951-‘52, pubblicato dall’omonima società storica riporta un testo di Ernesto Mattone-Vezzi, “Giovanni Boccaccio riavrà la sua tomba”, ove si rammenta la scoperta di Marzi (al tempo dell’articolo presidente della società), che si apprestava ora, nella chiesa, a «provvedere a sue spese alla nuova copertura marmorea della tomba terragna riconosciuta, affidando l’esecuzione allo scultore Mario Moschi di Firenze», asseverata dal precedente “Convegno dei dotti” l’identità della tomba stessa.
Un videoservizio del 1958 è consultabile grazie ancora al sito dell’istituto Luce e conferma le persistenti ombre sull’identificazione.
L’incertezza si è allungata fino ai giorni nostri, ma l’ingresso nella chiesa dei Santi Jacopo e Filippo e una sosta dinanzi alla lapide del Boccaccio rimangono un momento unico che la visita a Certaldo offre, per ripercorrere con la mente non solo reminescenze scolastiche, ma anche per ritrovarsi a tu per tu con la storia, in uno scenario rimasto sospeso nel tempo.
Il palazzo Pretorio, con l’attigua chiesa dei Santi Tommaso e Prospero, è uno dei tre musei più importanti, insieme al museo di Arte Sacra e a casa Boccaccio, e davanti ad esso arrivano via Boccaccio e via del Rivellino, la più antica del paese; la facciata in mattoni, sormontata da merli e affiancata dalla torre con un orologio collocato nel 1484, è impreziosita da numerosi stemmi in terracotta invetriata, pòsti dai vari vicari si sono alternati a dimora dal XV al XVIII secolo.
Citato nel 1164, in un diploma di Federico Barbarossa, fu residenza dei conti Alberti, ai quali venne confiscato dopo che Certaldo passò sotto Firenze; certamente dal 1420 (in quanto data ricavata da uno degli stemmi ) era subentrato un vicario, magistrato fiorentino con il compito di amministrare la giustizia in val d’Elsa e in val di Pesa.
Il vicariato di Certaldo fu via via ridotto e poi soppresso nel 1789, dopodiché il palazzo venne svuotato e venduto per ricavarne quindici appartamenti; pure l’antistante loggetta ebbe questa destinazione, ottenuta chiudendo gli spazi tra le colonne. La comunità locale riuscì a riacquistare l’edificio alla fine dell’Ottocento, restituendogli la dignità storica e oggi la visita dei suoi ambienti restituisce uno spaccato di vita d’altri tempi. Oltrepassato l’atrio, si entra nella camera del Cavaliere o del Tribunale, ove appunto si tenevano i processi; in una piccola nicchia nel muro, sulla sinistra, si tenevano le chiavi della prigione detta “La vecchia”, oltre la porticina accanto. Sulle pareti del carcere sono incisi giochi, calendari, passatempo dei prigionieri, e sul soffitto si legge la scritta in nerofumo di candela «O come mal la discorresti amico, quando mettesti il piè drento alla soglia poiché l’uscita non sarà a tua voglia. Giambadia il sa e per questo te lo dico», firmata Castelfiorentino, Giambadia Neri, Giambattista Perazini 1655. Chi era costui? Un artista con la disdicevole abitudine di intascare gli anticipi per le opere commissionate, senza poi preoccuparsi di eseguirle, tantomeno di restituire la caparra.
Il percorso al piano terra porta nella cappella, oratorio privato del vicario, ma anche estremo tetto in questo mondo per i condannati a morte, che vi trascorrevano la loro ultima notte, assistiti dai confratelli della SS. Annunziata. Contraltare alla quiete della cappella è la stanza dei tormenti, che oggi tace, ma evoca nel nome gli strazi che ospitò. In fondo al cortile del palazzo, percorrendo un angusto corridoio, si entra nelle prigioni criminali, tre vani, uno dei quali ricavato nella base del torrione delle mura di cinta del paese. Sui muri i calendari dei prigionieri non sono la consueta sequenza di linee (ognuna un giorno) incise parallelamente, ma raggi disegnati intorno ad un sole (che lì non arrivava) con occhi, naso e bocca triste: gli emoticon non sono un’invenzione del terzo millennio. Sotto la loggia del cortile, dietro al pozzo si trovano le prigioni femminili, comprendenti anche una cucina, una stanza per il telaio e un gallinaio, come si evince da una relazione del 1855. Salendo al primo piano si accede alla sala del Vicario – alta, solenne e affrescata da Pier Francesco Fiorentino – e agli ambienti privati.
Tornando indietro su via Boccaccio, si passa davanti alla Casa omonima, dove Giovanni visse gli ultimi anni a partire dal 1363; fu acquistata e restaurata nei primi anni dell’Ottocento dalla marchesa Carlotta Lenzoni de’ Medici, durante la seconda guerra mondiale fu quasi completamente rasa al suolo dai bombardamenti aerei alleati e si salvò solo l’affresco del letterato fatto realizzare dalla nobildonna. Oggi è sede dell’Ente Nazionale Boccaccio e conserva una notevole biblioteca dedicata all’opera.