
Gli Udzungwa sono un unicum in Africa orientale. Questa è una terra di savane aperte, di acacie spinose e di fauna selvatica. Qui abbiamo invece montagne coperte di foresta tropicale, rigogliosa e verdissima. Qualcosa di inaspettato. Così come è inaspettato trovare in quest’angolo di Africa un pezzetto di eccellenza scientifica italiana.
Sono venuto in Tanzania per seguire la cerimonia di apertura di un nuovo centro visitatori all’ingresso del parco nazionale, che deve qualcosa al nostro paese. Gli Udzungwa sono vecchi di milioni di anni, ma il parco è nato recentemente, nel 1992, grazie ad un’iniziativa del WWF internazionale (nel solco di alcune riserve istituite già negli anni ’50). Assieme ad altri gruppi montuosi, più piccoli, che sorgono isolatamente nel plateau tanzaniano, compongono la catena dell’Arco orientale, uno degli ultimi grandi templi della biodiversità del pianeta.
I visitatori di solito atterrano a Dar Es Salaam (“porto della pace”), metropoli affacciata sulla costa dell’oceano indiano. La famosa isola di Zanzibar, con la sua barriera corallina, è proprio lì di fronte. Ma per visitare gli Udzungwa bisogna voltarle le spalle e dirigersi verso l’interno. In auto, è un viaggio di 7-8 ore, che ad un certo punto attraversa anche un altro parco nazionale, il Mikumi. In alternativa, c’è la Tazara, la ferrovia che collega la costa tanzaniana allo Zambia, costruita dai cinesi quando la Tanzania era un paese socialista (non-allineato). Ma per chi ha fretta, o ama vedere il mondo come gli uccelli, si arriva a destinazione anche con un’ora di volo, a bordo di un piccolo Cesna.
Il parco degli Udzungwa si estende per circa 1.900 km quadri, che vanno dai 300 slm del fondovalle ai 2.576 della cima del Luhomero. In realtà esso tutela solo una porzione di questo ecosistema unico, ricco di acqua, sopravvissuto al ritirarsi delle foreste pluviali verso l’Africa centrale (le ritroviamo nel bacino del Congo, molto più ad Ovest di qui).

I ricercatori del Muse, il Museo della Scienza di Trento, sono arrivati pochi anni dopo l’apertura ufficiale del parco: il pioniere è stato Francesco Rovero, all’epoca un giovane borsista italiano in trasferta nel Regno Unito, di cui la Tanzania è stata colonia dalla fine della Prima guerra mondiale (in precedenza era stata possedimento tedesco). La prima visita fece scoccare la scintilla. Poi, è venuta l’attività di ricerca sistematica, la catalogazione delle nuove specie animali e vegetali. Nel 2006 il Muse, in collaborazione con la Tanapa, l’ente nazionale dei parchi tanzaniani, e grazie alle risorse messe a disposizione dalla Provincia autonoma di Trento, ha aperto un centro di monitoraggio permanente, a disposizione degli studiosi di tutto il mondo. Nello stesso, anno, il “colpo grosso”: la cattura del primo esemplare di toporagno elefante dalla testa grigia o “Sengi” (Rhynchocyon udzungwensis), una specie di mammifero prima sconosciuta. La scoperta di questo animale di circa 60 cm., dal muso allungato, ha fatto molto rumore nel mondo scientifico e ha contribuito a consolidare la fama di “Galapagos d’Africa” delle foreste dell’Eastern Arc tanzaniano. Il centro, dotato di foresteria, ha cominciato ad attirare studiosi da ogni parte del mondo. Fino ad oggi ne ha ospitati oltre 600, per periodi più o meno lunghi.
Parallelamente, a Trento, nella nuova sede del Muse, progettata da Renzo Piano e inaugurata nel 2013, è stata realizzata una serra tropicale che riproduce l’ambiente degli Udzungwa, per la gioia di chi non può venire a vederli di persona in Africa.
Regno del giaguaro, di 3.000 specie di piante, di 400 specie di uccelli, di 120 specie di mammiferi, gli Udzungwa in verità non soffrono della pressione turistica a cui sono sottoposte altre e più famose aree della Tanzania, come la piana del Serengeti, o il cratere del Ngorongoro. La sfida allo stato attuale è semmai creare le condizioni per una convivenza “pacifica” fra il parco e le popolazioni autoctone.
“Il ruolo di un museo della scienza moderno – spiega il direttore del Muse Michele Lanzinger – è anche questo: fare ricerca, inserirsi nei network scientifici internazionali, promuovere reti di collaborazioni. Ma una realtà come questa non sopravviverebbe senza un rapporto solido con il territorio, cioè con le autorità locali, le scuole, i capivillaggio. Per questo abbiamo avviato tutta una serie di attività rivolte a chi vive attorno al parco. Lo sforzo, qui come anche sulle nostre Alpi, è sempre lo stesso: far comprendere che un’area protetta può essere una risorsa per lo sviluppo, non solo un insieme di vincoli e divieti”.

Fra le opportunità vi è naturalmente quella dell’ecoturismo. Il centro visitatori inaugurato ai primi di marzo, va in questa direzione. Alla cerimonia hanno partecipato fra gli altri il ministro all’ambiente e turismo tanzaniano Japhet Asunga e l’ambasciatore italiano in Tanzania Roberto Mengoni. I discorsi sono stati inframezzati da canti e danze eseguite dagli studenti delle scuole locali, i cui padri, fino a non molto tempo fa, nella foresta cacciavano e si procuravano la legna. Nemmeno oggi, sembra di capire, il problema del bracconaggio è debellato. Il parco è presidiato da una cinquantina di rangers, ma non è facile controllare un territorio così esteso, e così selvaggio.
“Mio padre veniva qui a caccia, e più tardi assieme alle spedizioni naturalistiche inglesi. Una volta cercò di catturare un pitone, per dimostrare a quegli scienziati quanto valeva, ma rischiò di venire sopraffatto. Mi ha insegnato tutto quello che so”. Ruben Mwakisoma, che ci accompagna lungo un sentiero piuttosto ben tenuto, è un Wahehe, la popolazione maggioritaria nella regione di Iringa. Alla fine del XIX secolo i Wahehe, guidati dal loro re, Mkwawa, opposero una fiera – anche se vana – resistenza all’avanzare della colonizzazione tedesca. Alla fine Mkwawa si uccise, per non cadere nelle mani dei nemici: il tuo teschio venne portato in Germania, dove rimase al museo di storia naturale di Brema fino alla restituzione alla Tanzania, nel 1954, qualche anno prima dell’arrivo dell’indipendenza (che data 1961). Piccolo, magro, Ruben è un perfetto uomo di foresta: un sostegno indispensabile per i ricercatori del Muse.

La foresta sembra chiudersi su di noi e sulla pista che stiamo seguendo, riparandoci peraltro dagli occasionali acquazzoni, sempre possibili da queste parti. L’umidità ci fa sudare copiosamente. L’esuberanza della natura lascia senza fiato. Sulle nostre teste, volteggiano varie specie di scimmie. Attorno, o ai nostri piedi, farfalle multicolori, grandi millepiedi, colonne di formiche che stiamo ben attenti a non pestare, anche perché il loro morso è come una puntura di spillo. Ma in realtà non vediamo nulla. È la nostra guida a bloccare all’improvviso il nostro cammino, indicando quello che sembra un semplice fuscello messo di traverso sull’erba. Guardiamo meglio: è un serpente, con la piccola testa triangolare coperta da una macchia verde, come una foglia. È sottile, immobile. “Pericoloso?”. “Yes”, sorride. “Qui c’è anche il mamba nero – aggiunge, sornione – cioè il serpente dei sette passi”. Se ti morde, come sanno tutti coloro che in gioventù hanno letto almeno qualche romanzo di avventura, non arrivi a fare l’ottavo passo. Muori prima.
Lungo il cammino che conduce alle cascate, uno dei punti più panoramici del parco, i ranger ci mostrano le proprietà di qualche pianta: ci sono foglie che possono guarire disturbi di stomaco o intestinali, altre che tolgono la fame, altre ancora che provocano allucinazioni (“lo vediamo anche sulle scimmie”). Un rametto spezzato funge da spazzolino da denti. Mentre quella grossa liana che ha invaso il sentiero, se tagliata, secerne una sostanza antisettica, un ottimo succedaneo del sapone (“ma tenetela lontano dagli occhi!”). Sugli alberi si spenzolano diversi esemplari di red colobus, colobus angolano, cercocebo Sanje, e ne citiamo solo alcuni. Altri animali, compresi mammiferi di grossa taglia come elefanti, bufali, leopardi, vengono monitorati con trappole fotografiche, come quelle usate anche in Trentino per studiare la popolazione di orsi bruni.
Il famoso toporagno, invece, lo vediamo solo nel centro visitatori. I bambini si affollano attorno alla bacheca che lo racchiude, sgranando gli occhi. Indossano la divisa della scuola, come è d’uso nei paesi su cui l’impero britannico ha lasciato la sua impronta. La vera scommessa sono loro. Sono loro i veri eredi di questo patrimonio naturale, quantomeno se la Tanzania, con i suoi alleati (oltre al Muse qui è presente anche il Natural History Museum of Denmark, e in futuro dovrebbe arrivare la Fondazione Edmund Mach) riuscirà a preservarlo.
Un contributo arriva anche da alcune associazioni: Mazingira, promossa dagli stessi ricercatori del Muse, Nadir, che raggruppa professionisti provenienti da diverse aree, che hanno deciso di mettere un po’ delle loro competenze al servizio degli altri, e Docenti senza Frontiere. Qui come altrove in Africa una delle principali minacce all’ambiente naturale è rappresentata dalla deforestazione. La fonte principale dell’energia per cuocere i cibi o scaldarsi è infatti la legna. Le associazioni studiano con i locali come ovviare al problema. Ad esempio, diffondendo stufe più efficienti del classico focolare “con tre pietre”, come un particolare fornelletto in lamiera, che può essere prodotto localmente. Le scuole ospitano vivai di piante ad alto potenziale commerciale, curati dagli stessi studenti. Si ragiona anche su tipi di combustibile diversi. I cambiamenti non possono avvenire dall’oggi al domani, né possono essere calati dall’alto. Ma è importante “accompagnarli”, non solo attenderli passivamente o subirli.
“Siamo in Tanzania perché pensiamo di poter dare un contributo – spiega l’assessora trentina alla cooperazione allo sviluppo, Sara Ferrari – . La nostra in passato è stata una terra povera, da cui si emigrava. Se abbiamo raggiunto livelli di qualità della vita elevati, lo dobbiamo alla scuola, certo, ma anche alla difesa del nostro ambiente e al turismo. Gli Udzungwa sono unici, proprio come le nostre Dolomiti. Insomma, vorremmo mettere a disposizione un po’ della nostra esperienza, oltre che delle nostre competenze scientifiche. Ma attenzione, non si tratta solo di altruismo: il mondo oggi è uno solo, la tutela della foresta tropicale in Africa rappresenta un contributo per tutto il pianeta e un argine al cambiamento climatico. Se lavoriamo bene qui, i benefici verranno a tutti, anche all’Europa. Anche alle nostre Alpi”.
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