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La Roma di Mauro Lucentini: Piazza di Spagna, una gran signora un po’ decaduta

Eleganti fin dalla sua creazione, la piazza e la sua scalinata resistono nella loro raffinatezza nonostante pubblicità, frastuono e sudiciume

Mauro LucentinibyMauro Lucentini
La Roma di Mauro Lucentini: Piazza di Spagna, una gran signora un po’ decaduta

Piazza di Spagna, Rome

Time: 7 mins read

Quello che segue è uno stralcio da ‘La grande guida di Roma’ di Mauro Lucentini, il nostro critico d’arte; più precisamente, è uno stralcio da quella parte del libro che è intitolata ‘Prima di andare,’ ossia che può esser letta prima di visitare il luogo, dovunque; mentre le parti che si riferiscono alla visita vera e propria sono denominate ‘Sul posto’. Questa divisione è tipica del libro di Lucentini  e unica nel settore delle guide, particolarmente adatta a Roma dove è utlissima per assorbire la quantità enorme dei dati d’informazione occorrenti per avere un’idea della ‘Città eterna’ e dei suoi 2700 anni di storia. Tutti gli stralci che seguiranno provengono dalle parti ‘Prima di andare’; per avere il libro completo, ossia anche i gruppi di pagine che vi occorrerano una volta ‘Sul posto’, acquistatelo direttamente da Amazon. Gli stralci precedenti possono essere riletti cliccando qui.

 

Se dovessimo con una sola parola descrivere il carattere di piazza di Spagna, questa parola non potrebbe essere che: eleganza. La piazza è stata elegante fin dal momento della sua creazione, quando il papa aveva deciso di farne il modello del suo nuovo quartiere creato a est della sovraffollata ansa del Tevere.

L’offerta, affidata agli imprenditori immobiliari, di moderne, ariose abitazioni in una zona non congestionata fuori di quel “centro” millenario, a prezzi particolarmente alti limitò fin dall’inizio l’afflusso alla gente provvista di un’adeguata fortuna, cioè ad una categoria che includeva prelati, nobili, diplomatici e in generale viaggiatori stranieri. Ne derivò per la piazza un’aura di esclusività. Questo carattere raffinato, accentuato nei secoli seguenti da fattori che poi diremo, sopravvive miracolosamente a tutt’oggi, nonostante certe manifestazioni pubblicitarie periodicamente organizzate sulla famosa scalinata, le folle cittadine sfornate dalla vicina metropolitana e le masse di turisti che invadono la piazza a tutte le ore. Il traffico dei veicoli è vietato, ma frastuono e sudiciume ugualmente abbondano, soprattutto la sera quando si aprono squallidi chioschi e venditori ambulanti allestiscono i loro banchetti.

Una stampa seicentesca di G. B. Falda. In secondo piano a destra, lo scandaloso pendio campestre di Piazza di Spagna prima del suo risanamento morale dovuto alla Scalinata. In basso è la Barcaccia appena costruita, con getti più vivaci di quelli di oggi e accompagnata, a sinistra, da una fontanella pubblica non più esistente

Ma ci sono ancora molti momenti in cui nella piazza si ritrova l’antica magia. La presenza di negozi d’alta classe come Gucci, Bulgari, Prada e Valentino, i quali hanno tutti la loro sede originale, divenuta il fulcro di una rete mondiale, nella piazza o nelle adiacenze, nonchè di venerabili locali pubblici del tempo antico come la casa da tè Babington’s e il Caffè Greco certamente aiuta. Ma sono soprattutto i sereni lineamenti fisici della piazza e i molti ricordi di una vita culturale e sociale che fu tra le più intense d’Europa che ne tengono viva la speciale atmosfera.

Specialmente al colmo dell’era romantica, la presenza di tanti stranieri, residenti o di passaggio, perlomeno ostensibilmente impegnati in attività artistiche e culturali – quasi senza eccezioni, lo scopo ufficiale del viaggio era l’esplorazione e comprensione del grande passato classico di Roma – fecero di piazza di Spagna il ritrovo intellettuale del mondo. «Nulla di simile esiste altrove», notava Stendhal nel primo Ottocento.

Come abbiamo già notato, il cosmopolitismo della piazza risale al suo principio, cioè al tardo Cinquecento. A quell’epoca sia la Spagna che la Francia, allora le maggiori potenze del mondo, acquistarono importanti proprietà nell’area: la Spagna nella piazza propriamente detta, in cui collocò la sua ambasciata presso il papa (dove essa si trova tuttora), conferendo praticamente alla piazza il nome attuale; la Francia, sulle alture del Pincio antistanti la piazza, dove essa installò una chiesa a uso del clero francese e, più tardi, una splendida accademia delle arti (sono tutte e due ancora lì). Le due nazioni monopolizzavano la piazza al punto che, per circa un secolo, mentre una metà veniva chiamata “piazza di Spagna”,  l’altra metà veniva chiamata “piazza di Francia”.

Nel Settecento fu la volta dei ricchi inglesi a invadere la piazza. Alloggiavano per lunghi periodi o in appartamenti presi in affitto o nei molti alberghi di lusso spuntati nell’area (tra i pochi alberghi di questa categoria rimastivi oggi sono lo Hassler, secondo alcuni il migliore di Roma, e l’Albergo d’Inghilterra). L’Inghilterra in quel secolo era divenuta la superpotenza mondiale e la sua classe alta aveva acquistato il costume del cosiddetto Grand Tour d’Europa, di cui Roma rappresentava il culmine indiscusso. Fino al tardo Ottocento, le schiere di “milordi” (come i romani del popolo chiamavano tutti gli inglesi, nobili oppure no) che si recavano nella piazza le avevano procacciato il nomignolo dialettale locale di “Ghetto dell’Ingresi”.

Viaggiatori britannici del ‘Grand Tour’ a Roma a metà del Settecento (il Colosseo, a sinistra e l’Arco di Costantino a destra sullo sfondo), nel quadro di una pittrice scozzese dell’epoca, Katharine Read (Yale Center for British Art, New Haven, Conn., USA)

Dalla piazza, i ricchi visitatori si dedicavano alla ricerca di dipinti e di antichità da riportare in patria. Come abbiamo visto, ciò contribuì grandemente ad assicurare il sostentamento dei molti artisti e antiquari che, stabilitisi nella zona, ne avevano accentuato il richiamo intellettuale. Un fenomeno connesso fu la comparsa nella piazza di un mercato del lavoro per modelli maschi e femmine, che venivano ingaggiati dai pittori, dai molti turisti inglesi che erano entusiastici acquarellisti, e, più tardi, dai primi fotografi professionisti. Molti indossavano i costumi folkloristici delle campagne vicine, da cui generalmente provenivano, «tutti occhi dipinti e chiome spillate e polpacci fasciati e cappelli a pan di zucchero», come scrisse nel tardo Ottocento il romanziere americano Henry James. Charles Dickens pochi anni prima li aveva trovati «altamente divertenti». La presenza di questi modelli nella piazza e in una stradina non lontana in cui molti vivevano in camerette d’affitto (via dei Modelli) è durata per un paio di secoli, fino alle soglie del Novecento.

Ma la bellezza fisica del luogo contribuiva e contribuisce ovviamente al suo speciale richiamo.

Quando l’area era praticamente suddivisa tra Francia e Spagna, ognuna delle due nazioni, in un periodo di intensa competizione politica, si era dedicata ad abbellire la porzione in suo possesso. La Francia, o più precisamente il suo famoso statista secentesco italiano di nascita, il cardinale Mazarino, aveva avuto l’idea migliore: una scala monumentale che dalla piazza sarebbe salita lungo il pendio del Pincio fino alla chiesa francese e alle altre proprietà francesi là in alto. Tuttavia il progetto non poté essere eseguito fino ad un secolo più tardi, quando fondi sia romani che francesi si resero disponibili per realizzarlo, e quando un progetto particolarmente attraente fu presentato dal distinto architetto romano Francesco De Sanctis.

La scalinata di piazza di Spagna o Spanish Steps, come la chiamano oggi inglesi e americani (se potesse udirli, il povero Mazarino si rivolterebbe nella tomba), è il più famoso e caratteristico elemento della piazza. Gli architetti trovano speciale merito nel modo spettacolare in cui i gradini si aprono allo sguardo da tutte le direzioni. Il rapporto del progettista settecentesco, tuttavia, rivela che De Sanctis non era stato mosso soltanto da considerazioni estetiche: renderò la scala visibile da ogni punto, scriveva, «perché i reverendi padri (della chiesa francese al sommo della collina) mi hanno avvertito delle grossolane indecenze» che commettevano su quel declivio cespuglioso le coppie che vi si rifugiavano.

Il poeta John Keats a ventitré anni, in una miniatura del suo compagno Joseph Severn

Si affaccia sulla scalinata l’appartamento (oggi Museo Keats-Shelley) in cui John Keats morì quattro mesi prima del suo 25° compleanno. Era arrivato a Roma nel novembre 1820, gravemente ammalato di tisi, insieme a un giovane amico, il pittore Joseph Severn (all’epoca Roma godeva la reputazione di clima benefico per i “consuntivi”). Come la maggior parte dei loro connazionali, i due avevano preso alloggio in piazza di Spagna. La cameretta da letto di Keats si apriva sul lato assolato della gradinata. Lì il più grande dei poeti romantici inglesi trascorse l’ultimo mese della sua vita fissando gli occhi al soffitto che Severn aveva dipinto per lui a erbe e fiori, consumato dal desiderio di rivedere la sua amata, Fanny, e scrivendo lettere che è difficile leggere senza profonda commozione. Eccone un passaggio.

“Il pensiero di lasciarla è orribile oltre ogni dire – un senso di oscurità cala su di me – eternamente vedo la sua figura che eternamente svanisce […] Mi sveglierò forse per trovare che è tutto un sogno? Non possiamo esser nati per questo genere di dolore […] c’è soltanto un pensiero che mi uccide. Sono stato bene, in salute, in piena coscienza, ho camminato accanto a lei, e ora… […] Avrei dovuto prenderla quando stavo bene, sarei rimasto sano. Posso sopportare di morire. Non posso sopportare di lasciarla. Oh Dio, Dio, Dio, Dio! tutto… tutto ciò che mi ricorda lei mi attraversa come una spada”.

Né poteva trovare conforto nella fede. Scrivendo ai suoi, Severn riferiva così le espressioni d’angoscia del suo amico:

“Un essere maligno deve tenere noi in suo pieno potere, su cui l’Onnipotente ha poca o nessuna influenza […] Sai, Severn, io non posso credere nel tuo libro, la Bibbia, eppure sento lo spaventoso bisogno di una qualsiasi fede, di una qualche speranza, di un qualcosa su cui riposare […] deve esistere un simile libro…”.

Keats morì appena tre mesi dopo il suo arrivo in una sera d’inverno, nelle braccia dell’amico. Poche ore dopo Severn riferiva in una lettera ai suoi le sue ultime parole:

“Hai mai veduto nessuno morire, Severn […] Beh, povero amico, quanto dolore ti sei preso per me e quanto pericolo […] ora devi essere fermo, perché io non durerò molto. Tra poco sarò steso nella quieta tomba […] ringrazio Dio per questa tomba. Oh, posso già sentire la terra fredda sopra di me, le margherite che crescono sopra il mio corpo […] Grazie per questa quiete. Sarà la prima che avrò, dopo tanto tempo”.

Lo seppellirono nel Cimitero protestante di Roma (dove ritroveremo le sue spoglie), un fragrante giardino ombreggiato dai pini, allietato dalle margherite di cui aveva sognato. Secondo le sue istruzioni la sua anonima pietra tombale, riconoscibile solo per le parole A Young English Poet (‘Un giovane poeta inglese’), reca l’iscrizione: «Qui riposa uno, il cui nome era scritto sull’acqua». A poca distanza è la tomba del suo amico poeta Percy Bisshe Shelley, le cui memorabilia dividono con quelle di Keats il piccolo museo allestito nel vecchio appartamento di piazza di Spagna; anche lui un habitué della piazza, e anche lui morto tragicamente, a trent’anni, un anno dopo Keats. Solo su una barca a vela, naufragò nel Tirreno in tempesta, forse suicida (anche di questa morte riparleremo nella visita al Cimitero protestante). In tasca gli trovarono l’ultimo libro di liriche di Keats. Quanto a Severn, finì con lo stabilirsi a Roma, dove visse fino a 85 anni in una casa poco distante dalla piazza.

Keats e Shelley sono solamente due delle dozzine di poeti, scrittori e pittori inglesi e americani vissuti intorno e vicino alla piazza, tra i quali Lord Byron, che chiamava Roma «la città dell’anima», Sir Walter Scott – insieme a Byron, altra figura centrale del movimento romantico – Sir Thomas Lawrence, Sir Joshua Reynolds, Rembrandt Peale, Thomas Cole e John Singleton Copley. Joseph M. W. Turner, il grande paesaggista inglese, aveva il suo studio nell’adiacente piazza Mignanelli, dove il diario di un contemporaneo lo descrive in questo modo: «un piccolo gentiluomo rubicondo, sempre intento a disegnare presso la finestra sul suo album di schizzi».

Sulla sommità del Pincio, ospiti dell’Accademia francese o residenti nelle vicinanze vissero invece a centinaia pittori, musicisti e scrittori francesi tra il XVI e XX secolo, tra cui Poussin e Fragonard, Ingres e Chateaubriand, Berlioz e Gounod, Debussy e Balthus.

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Mauro Lucentini

Mauro Lucentini

Sono nato e vissuto a Roma che però ho abbandonato più di mezzo secolo fa per fare il giornalista in varie parti del mondo. Ne ho tratto una specie di complesso di colpa nei confronti della mia città natale, complesso che ho un po’ alleviato scrivendo da lontano una Grande Guida di Roma, che si vende in diverse lingue in diversi paesi. A New York venni per rimanerci tre o quattro anni, invece ci incontrai la ragazza più carina e dolce del mondo così ci sono rimasto, mettendo su, come si suol dire, famiglia. Lei però, pur essendo tanto più giovane di me, è poi scomparsa come un fiorellino che muore. In questa lunga carriera, cominciata quasi da bambino, ho sempre scritto sia di politica che di arte e di questo non mi pento.

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