L'anno scorso, prima di partire in autostop per il Grande Nord, passai diversi mesi a Toronto, nella speranza di trovare un lavoro decente e tentare subito la spedizione in canoa tra Yukon e Alaska. Niente andò come previsto. Peccai sicuramente di arroganza, commettendo il primo errore che porta al fallimento: dare le cose per scontate.
Avevo necessità di trovare lavoro perché, contro le mie previsioni eccessivamente ottimistiche, stavo esaurendo rapidamente i soldi messi da parte durante la stagione estiva e le settimane correvano veloci sul mio visto valido per sei mesi. Era una corsa contro il tempo, resa frustrante da tutti quei no e quelle porte in faccia che stavo ricevendo. Nel mio settore (videomaking) avevo collezionato una serie infinita di email rimaste senza risposta. Non mi consideravano affatto, se non per posti non retribuiti, tipo stage. Mi faceva ribrezzo trovare lo sfruttamento che avevo lasciato in patria in un Paese che rappresentava la mia speranza e via di uscita da un sistema meschino e senza futuro. Ero scoraggiato. Cercai anche nel settore della ristorazione e, alla fine, l’unico impiego che mi riuscì di trovare fu un part time come lavapiatti nel quartiere Bloor West Village, Toronto ovest.
Ero finito in un gourmet burger per famiglie, per puro caso. Mi aveva assunto un manager dimissionario al quale non importava più niente di fare bene il proprio lavoro. Un tipo piuttosto mediocre che non aveva neanche più tanta voglia di stare in quel posto. Fu il mio salvatore. Avevo falsificato il resume e dichiarato di aver più di due anni di esperienza in cucina. In realtà la mia esperienza ai lavelli era di una sola sera ai Bagni Lido Azzurro di Albisola Superiore, quando, sebbene lavorassi come bagnino, rimpiazzai la lavapiatti in una situazione di emergenza.
Il lavapiatti è una mansione difficile e se non sei pronto psicologicamente, può essere davvero umiliante. Io non ero pronto per niente. Non avevo neanche ben capito che mole di lavoro mi sarei trovato a smaltire. Il primo venerdì di folla, all’una di notte, ero ancora intento a spazzare griglie piene di grasso e taglieri incrostati di cipolle, sotto lo sguardo stanco e disperato del manager, che avrebbe dovuto essere a casa già a mezzanotte. Poverino. Aveva aperto da pochi mesi e non si era preso neanche un giorno off. Ed ecco il nuovo lavapiatti che non sa distinguere una vaschetta da otto once da una da undici. Italiano per giunta!
Sentivo che il licenziamento era nell’aria e se il capo avesse avuto un’alternativa mi avrebbe liquidato di sicuro. Tornavo a casa la notte sfinito, fisicamente e mentalmente distrutto, nel vedere quel sogno che mi sfuggiva di mano.
Perdere il lavoro sarebbe stato un disastro e avrei dovuto chiedere un prestito a un amico per un prematuro, rovinoso, rientro a casa. Fortunatamente nessuno bussò alla porta della cucina perché eravamo sotto Natale e ottenni la fiducia per rimanere. Il rischio di bruciare quell’occasione scatenò in me una motivazione fortissima, che scacciò ansie e paure. Già la terza sera chiusi la cucina alle undici e trenta e il manager mi incoraggiò a fare ancora meglio. Era un bravo motivatore.
Incredibilmente ero l’unico straniero in cucina. Una cosa rara in Canada. I miei colleghi si mostrarono presto più gentili. L’inizio non era stato brillante. Ero ben cosciente del fatto che quando arrivi in un posto nuovo devi conquistarti la fiducia degli altri, poco a poco, senza strafare. Mi impegnai a essere quanto più ordinato e ligio possibile e spesi tutte le energie che avevo in corpo per imparare a gestire tutta quella roba da lavare. Volevo essere apprezzato per il mio lavoro, non perché facevo lo splendido con le ragazze o perché dovevo risultare per forza divertente in quello che dicevo. Era come essere di nuovo in una squadra. Considerare la cucina un nuovo team in cui avere un ruolo, fu la soluzione a tutti i miei problemi. Ero grato a quel posto, poco importava se fosse il gradino più basso che avrei mai immaginato di raggiungere. Senza, sarei tornato a casa. Per migliorare sempre più l’operato, dovevo guardarmi bene attorno e capire il funzionamento di ogni singolo reparto, per azzeccare tempi e modalità di consegna degli attrezzi puliti e anticipare le richieste dei colleghi. Dovevo lavare da solo le scodelle in metallo e plastica della sala, pentoloni, padelle sporche e i coltelli della “prep line”, i bicchieri, gli shaker del bar, i taglieri, i frullatori, i filtri dell'aria, i cestelli delle friggitrici e le griglie della “cook line”. Imparai presto a urlare “knife!” ogni volta che consegnavo un coltello in cucina, a ripetere “watch out!” fino alla nausea quando trasportavo nel retro la pesante bacinella piena di piastre incrostate di grasso e formaggio. Escogitai altri mille trucchi per chiudere la cucina abbastanza presto da non essere rimproverato, ma nel tempo giusto per essere pagato bene. Capii che persino di sabato avrei potuto ritagliarmi cinque minuti di pausa. Trovai la poesia in quel mestiere: the romance of washing dishes. Ormai lavavo i piatti pure nel sonno. Vedevo scodelle sporche dappertutto e tutt'oggi ispeziono ogni singola stoviglia che mi trovo sul tavolo per capire chi e come l'ha lavata. Studiavo i miei compiti giornalieri appesi al muro e li ripetevo a memoria a casa: lunedì pulire muri bassi, martedì ordinare cella frigo grande ecc…
Finalmente, dopo un mese e mezzo la mia postazione era sempre pulita, i lavandini sempre svuotati e nessun reparto aveva più bisogno di venirmi a chiedere di lavare qualcosa che non ero riuscito a consegnare in tempo. Bob, tra i migliori della cucina, mi disse davanti a una birra: “Amico sei davvero al top di quello schifo di lavoro! Tutti pensano che il lavapiatti sia the restaurant's bitch, ma in realtà devi essere il più organizzato, il più veloce e capire come funziona tutto il locale! E tu lo sai fare alla grande! È un piacere lavorare con te”. Le parole di Bob avevano il peso di una medaglia d’oro. Tornai a casa con due ghiaccioli sotto agli occhi, mentre la neve cadeva e appesantiva i rami secchi di High Park.
Avevo ritrovato l'entusiasmo in fondo a un lavandino. Persino l'inverno canadese mi sembrò improvvisamente meno freddo. Aspettai la primavera con pazienza e partii per il Nord come avevo sperato.
Lavare i piatti è spesso visto come qualcosa di estremamente ridicolo, facile, mortificante. Eppure mi ha dato il diritto di rimanere in Canada per il tempo necessario a gettare le basi per un nuovo progetto e motivato più di ogni altra esperienza passata. Dovrebbe essere un'attività pagata meglio e usata a fini terapeutici. Thic Nhat Han, monaco buddista e candidato al Nobel per la pace, l'ha indicata come un vero e proprio invito alla meditazione. Come tutte le attività formative, però, non praticatela troppo a lungo o perderà di efficacia. Piuttosto sfruttatela per trovare una soluzione ai vostri problemi del momento. Il risultato è garantito.
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