Una figura ricorrente nella letteratura cinese è quella del letterato che se ne parte dal suo villaggetto natale per andare nella capitale a tentare la sua chance passando gli esami di Stato per diventare funzionario, ma che poi, preso dall’ebbrezza della città e dall’ambizione, dimentica quel villaggetto da cui è venuto, la moglie, la casa, i genitori.
Ci si monta la testa quando si vive all’estero, diranno alcuni, ci si crede chissà chi solo perché si è vissuto al di fuori del paesino, perché si è visto altro. Quanto prese in giro mio nonno quel suo fratello che era tornato dall’America con una motocicletta bella fiammante. Da quel momento lo chiamarono per un po' “l’Americano”, in un misto tra la canzonatura e l’ammirazione.
“Chi lascia la strada vecchia per quella nuova, sa quello che lascia ma non sa quello che trova,” recita l’adagio. Sfidare quest’incertezza e partire comunque è spesso il segno di un’insoddisfazione verso ciò che si ha e il posto in cui si è, il segno di un bisogno di ricerca personale.
Poi ci sono i casi della vita, certo: c’è chi parte per lavoro, chi parte per andare a vivere col compagno o compagna che sia; ma questi sono solo accidenti del caso che non fanno che innescare una miccia già pronta. Se parti, in fondo in fondo è perché qui per te non è abbastanza e pensi di poter trovare meglio altrove, questo è un po' il rimprovero che ti si fa senza dirtelo.
D’altra parte, per certi versi non si può certo negare che la tua sia stata una fuga dalla tua italianità, un prendere le distanze dalle origini. Ti ricordi ancora quando all’inizio avevi deciso, per principio, di non frequentare italiani – è vero pure che in certe capitali europee ce ne sono proprio a bizzeffe che quasi ti crederesti ancora in Italia.
Ti sei voluto gustare, all’inizio, quella bella sensazione di “spaesato”, di essere perso in un posto che non si conosce e che appunto per questo è tutto da scoprire, è il regno del possibile: il rovescio positivo di quella medaglia del “non saper quel che si trova”. Pian piano, senti di trovare una dimensione nuova, di far parte ora della tua nuova grande città europea, americana o asiatica che sia, poco importa, l’importante è che non sei più parte di quel paesino in cui sei nato e cresciuto. Ora vivi “all’estero”, quel posto in cui, si sa, tutto è meglio. “Tu che stai all’estero lo sai,” ti dicono al paese quando torni a Natale, “qui in Italia tutto va a rotoli, ma all’estero…” L’estero, questo posto che si definisce per comparazione e negazione, ovvero “tutto ciò che non è l’Italia, che è meglio dell’Italia”.
E di questo “altro” tu sei diventato un rappresentante, lo hai scelto, lo hai preferito al tuo paese d’origine. Tra l’ammirazione e l’incomprensione, cresce la distanza tra te e le tue vecchie conoscenze rimaste al paese.
Ma se da un lato hai fatto tua la tua nuova casa, d’altro lato ti rendi conto ora che non vuoi rinunciare alla vecchia e in fin dei conti ti senti spaesato in entrambe: “Il sedere tra due sedie”, come dicono in Francia. Ti senti come una coppia di calzini spaiati.
Eccoti qua, spaesato e spaiato come sei, a guardare ora indietro al tuo paese, alla tua regione, ma stavolta li guardi tramite la lente di una vita all’estero, tramite gli occhi delle tue conoscenze non italiane, che te ne parlano con curiosità, ti fanno domande. Per loro sono cartoline, estratti di guide turistiche, squarci di “tipico italiano”, ma per te sono realtà concrete che hai vissuto, ora hai voglia di tenertele strette come un segreto tutto tuo, te ne senti inorgoglito. Ti rendi conto che la tua realtà locale di origine è un meraviglioso altrove da scoprire per qualcun’altro. Torni a valorizzare la tua italianità inserendola in un contesto globale più ampio.
Finalmente accordi ai tuoi compatrioti e compaesani quella stessa comprensione che prima riservavi solo agli abitanti di paesi lontani. Quelle che ti sembravano una volta delle non-scelte, di quelli che restano al paese, ora le riconosci come scelte a pieno titolo, tanto quanto la tua.
Dal distacco tra chi resta e chi parte, si passa alla comprensione e purtroppo anche al riconoscimento reciproco nella sfiga, dato il contesto europeo di disoccupazione e precarietà giovanili generalizzate, che ci obbligano ad essere, tutti, una generazione dai sogni flessibili.
Penso a questo e ad altro, mentre mi godo un notturno cielo natalizio disteso davanti a un piccolo bar di un paesino delle Marche. Quanto beneficio ne trarremmo, mi dico, se solo riuscissimo a ripensare collettivamente in termini di comunicazione e di arricchimento reciproco, e non d’incomprensione e di distanza, questa relazione tra quegli italiani che scelgono di restare e quelli che decidono di partire, ma che poi puntualmente tornano sotto le feste di Natale.
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