Nel Gennaio del 2008, dopo l’esperienza acquisita in Ossezia del Nord (Russia), dove avevo girato un documentario sulla strage di Beslan, decisi di recarmi nella Regione del Saharawi (Sahara Occidentale), un vasto territorio nel Sud del Marocco. Non saprei dire con certezza, adesso, se andai per semplice curiosità o perché mi illudevo di poter effettivamente fare qualcosa di buono per quella gente con i miei documentari. Probabilmente ero ancora convinto che si potesse aiutare a cambiare il mondo con la semplice condivisione di storie. Ora lo sono molto meno.
Negli anni 70’, il Sahara Occidentale, fu smobilitato dalla Spagna, che l’aveva già colonizzato, ma venne poi invaso dalle truppe marocchine che costrinsero i Saharawi ad abbandonare la propria terra, trovando rifugio nel deserto. Come in tutte le guerre, vi è a monte un intrigo internazionale che coinvolge non solo gli stati africani del Maghreb, ma anche Usa, America latina, Russia e la stessa “democratica” Europa. La fiducia nei confronti delle Nazioni Unite, che dopo quindici anni di trattative non hanno ancora saputo risolvere la situazione, è ormai ben poca, dato che, mentre leggete, migliaia di persone vivono ancora in campi profughi nel deserto, sperando di tornare a casa.
Sono vittime senza nessun reale partito politico alle spalle, che vivevano tra le vallate desertiche del Marocco meridionale riuniti in diverse tribù nomadi di origini arabo-berbere. Le tribù ancora in libertà, composte da alcune decine di famiglie l’una, si supportano a vicenda e riescono a tirare avanti con i prodotti ricavati dall'allevamento e da quel poco che offre il Sahara.
Dalla notte dei tempi conducono vita pacifica allevando capre e dromedari e spostandosi periodicamente in cerca di pascoli.
Quando arrivai a Tata, la “porta del deserto” non avevo neanche il numero di telefono della persona che stavo cercando: Hassan Anour, l’uomo che aveva portato un mio amico tra le dune di Merzouga qualche anno prima. Lo cercavo perché avevo bisogno di una guida che mi portasse nelle zone a nord di Layonne. Il mio autista mi lasciò, per puro caso, proprio sotto casa sua e lo incrociai sulla porta d’ingresso. Tra noi nacque una forte, seppur breve, amicizia. Viaggiammo per quasi un mese nei territori occupati, tra interrogatori della polizia e notti con miliardi di stelle nelle tende dei pastori. Hassan aveva combattuto quella guerra e me ne parlava spesso come mio nonno faceva della Germania.
“Più che i combattimenti ci ha rovinato il massiccio uso di droghe e alcool. Eravamo sempre sotto l'effetto di hashish e stimolanti. La mancanza di lucidità ci impediva di riflettere su quello che facevamo. Ci insegnavano a trattare i civili come bestie. Rastrellavamo e li picchiavamo. Loro chiaramente impararono a reagire molto presto. Si creò un clima di terrore. I miliziani del Polisario (Fronte Polisario, organizzazione politico-militare dei saharawi) attaccavano con improvvisi blitz, specie di notte o alla mattina presto. Gli scontri non duravano molto, ma erano intensi e ogni volta cadevano un gran numero di soldati. Spesso rimanevamo isolati o ci mandavano in perlustrazione nel deserto in piccoli gruppi, con otto litri di acqua a testa per una settimana. Molti dei miei amici sono stati uccisi. Nessuno ha avuto un risarcimento dal governo, che io sappia. Il mio indennizzo per un anno al fronte è stato di 8000 dirham (circa 800 euro). I nostri occhi erano sempre gonfi e la mente annebbiata. Al ritorno dal fronte abbiamo avuto seri problemi di reinserimento persino nelle nostre famiglie. Il governo non ci ha dato alcun supporto, neanche sanitario. Sono rimasto per mesi a vagare per il Paese vivendo di espedienti. La mia famiglia non mi poteva aiutare, nessuno poteva farlo.
Dei miei compagni non so più nulla. Anche mio padre ha combattuto questa guerra e anche lui ha avuto ripercussioni forti a livello psicologico. Era un uomo docile, è tornato violento. Io non so cosa si dica da voi in Europa, ma qua la situazione è veramente grave. Il Paese è già in ginocchio per la miseria. Ci sono due sole classi sociali, una ricchissima e una poverissima. La gran parte di noi non può lasciare il paese per motivi economici o per l’ostruzionismo del governo. Immaginate con l'arrivo di un nuovo conflitto. Molti ragazzi poveri si arruolerebbero per mancanza di alterative nella vita e avremmo una terza generazione di veterani con disturbi psicologici gravi e dipendenza da droghe e alcool. La guerra può solo peggiorare la nostra società".
A Boujdour, dopo un lungo viaggio di avvicinamento in autobus, incontrammo Dadi Paalot, membro del movimento di liberazione del Sahara occidentale. Le sue parole mi lasciarono basito sulle dimensioni del fenomeno, di cui ignoravo la portata: “In questa regione vivono circa trecentomila persone, la metà delle quali concentrate nei campi di Rabuni, che funge da capitale amministrativa, il campo di Layoune. Poi abbiamo Smara, Aousserd, Dakhla e il campo nominato 27 Febbraio, in memoria della fondazione della Repubblica Saharawi nel 1976. Abbiamo battezzato i campi di accoglienza con i nomi delle nostre città, per non perdere la speranza di tornare, ma la situazione è ancora critica e pericolosa. Come vedi, le strade sono presidiate da forze di polizia e dall'esercito. Due anni fa un cittadino saharawi, Hamdy Lambaky, è stato torturato e ucciso da due poliziotti marocchini a Layoune. Il processo si è concluso solo ora con l'incarcerazione dei colpevoli, ma il governo ha fatto credere alle Nazioni Unite che è stato un caso isolato e che non è un fenomeno di cui preoccuparsi. Noi possiamo provare il contrario.
Mio padre è stato incarcerato nel 1976 con l'accusa di aver supportato il Fronte Popolare per l'Indipendenza del Sahara Occidentale. Il suo negozio è stato incendiato e tutti i suoi dromedari sono stati uccisi. Chiaramente non è servito a nulla reclamare i diritti di risarcimento al momento del suo rilascio, nel 1984. Al suo ritorno a casa mi ha raccontato di torture atroci nelle carceri marocchine tra cui la prigione di Ait Melloul (vicino Agadir), in cui sono reclusi alcuni giovani del Fronte Popolare che devono scontare ancora un anno di reclusione a testa. Abbiamo perso tutto quello che avevamo costruito in anni di sacrifici per dei semplici sospetti nei nostri confronti.
Siamo sempre stati supportati militarmente dai paesi filo-russi o comunisti. Negli anni Settanta molti dei nostri giovani sono stati addestrati a Cuba e parte di loro ha condotto le principali battaglie del Sahara in qualità di ufficiale. Inoltre abbiamo ricevuto aiuti da Algeria, Libia, Venezuela, Cile, Sudafrica, Russia e Spagna. Questo è un territorio che fa gola a molti: vi è una ricca presenza di giacimenti di fosfati e un mare tra i più pescosi dell'Africa occidentale.
Per questo motivo sia la Spagna che il Marocco hanno occupato militarmente la zona e sfruttato sempre più queste preziose risorse. Durante la Guerra Fredda, inoltre, i russi premevano per controllare questa parte di continente a fini strategici. Infatti, se fossero riusciti a insediarvi un governo filo-comunista, avrebbero ottenuto sicuramente uno sbocco prezioso sull'Atlantico e, non ultima delle possibilità, piazzare eventuali basi missilistiche più vicine agli Usa”.
Dopo diversi giorni nelle tende di una famiglia di nomadi del deserto, passati a osservare i costumi e le usanze di un popolo duro, fiero e di rara bellezza, io e Hassan tornammo a Tata.
Avevamo vissuto insieme molte avventure, spesso ai limiti dell’incoscienza, in appena tre settimane e mezzo. Eravamo molto contenti di esserci incontrati. Il nostro addio fu un momento che non dimenticherò mai. Gli sono molto riconoscente per aver rischiato di finire in galera per me. Un reduce di guerra che perde la retta via, a volte ha la fedina penale sporca e i poliziotti marocchini non perdevano occasione per farglielo notare. Non sono mai più tornato nel Saharawi per girare un documentario su quel conflitto. In nome di che cosa, quindi, avevamo rischiato? Chi ne sarebbe venuto a conoscenza? Poco importa. Spesso certe esperienze vanno solo vissute, per essere grati di stare al mondo.
Purtroppo le ultime notizie di Hassan che ho avuto non erano buone. Sua madre era morta e lui era praticamente impazzito. Vagava per il Marocco vivendo di espedienti, di nuovo. Provai a mandargli dei soldi, ma una sua amica mi disse che era sparito nel nulla, dopo aver picchiato, completamente ubriaco, della gente nella hall di un albergo di Casablanca. Tuttavia, sono abbastanza certo che stia bene. Lui era un “figlio del deserto”, uno tosto davvero.