L’alba di un futuro migliore sarebbe spuntata di lì a poco, con la costa vicino a Crotone che distava ormai non più di centocinquanta metri. Ma all’improvviso un’esplosione ha mandato in frantumi il caicco, trasformando il sogno in strage. Forse l’impatto con una secca, o con uno scoglio, o semplicemente la violenza del mare in burrasca, che ha voluto infierire proprio quando il traguardo era vicino. E così quella di domenica si è trasformata in alba tragica. Viaggiavano sul bialbero di costruzione turca in duecento, forse duecentocinquanta. Uomini donne e bambini di varie nazionalità, afghani, iracheni. iraniani, siriani, che si erano imbarcati a Smirne tre o quattro giorni prima. Sono rimasti in vita in ottanta, mentre il numero dei morti (già 64 sinora gli accertati) è destinato a crescere notevolmente, perché si stanno cercando i dispersi.

Una prima domanda. Potevano essere salvati questi poveretti? E’ normale che un’imbarcazione giunga dopo un viaggio così lungo fino alle nostre coste senza essere notata? L’Asgi, l’Associazione dei giuristi dell’immigrazione, osserva che le autorità italiane ed europee sapevano, anche attraverso Frontex, l’Agenzia comune delle guardie di frontiera, che l’imbarcazione fosse in difficoltà, ben 24 ore prima del naufragio. Perché non sono intervenute tempestivamente, dal momento che le nostre navi guardiacoste sono in grado di affrontare un mare in condizioni anche peggiori di quelle che sono risultate fatali a quei migranti?
E come ha commentato questa tragedia, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, appena giunto sul posto? “Dobbiamo evitare che partano”. Concetto ribadito dalla premier Giorgia Meloni. Quelle tre parole, “dobbiamo evitare che partano” sembrano cancellare con una riga nera la Convenzione di Ginevra del 1951 sulla tutela dei rifugiati, firmata dal nostro e da altri 150 paesi circa. Viene male a ripeterle fra sé e sé a voce bassa, mentre i soccorritori raccolgono dai naufraghi le loro storie. C’è un ragazzo afghano di 16 anni, fuggito dal regime dei talebani assieme alla sorella, che però è morta. Ma lui non ha avuto il coraggio di raccontarlo ai genitori che ha appena contattato al telefono, per comunicare l’arrivo in Italia. O quel padre fuggito anche lui dall’Afghanistan, che si è salvato assieme al figlio quattordicenne, mentre sono morti la moglie e gli altri tre bambini di undici, nove e cinque anni, e lui non sa darci pace, perché doveva cercare di salvare loro, anziché sé stesso. O le urla disperate di una madre lungo la battigia, che non trova più il suo bimbo.

Questa volta i migranti non sono venuti dalla costa nordafricana, ma dalla Turchia, navigando per la cosiddetta “rotta jonica”, altrimenti nota come “la rotta dei velieri”. Del resto gran parte di loro giungeva da paesi asiatici. Avrebbero versato ai mercanti di esseri umani attorno a 5 mila euro, per potersi imbarcare. Avevano alternative? Il regime iraniano e quello dei talebani a Kabul organizzano dei voli per chi se ne vuole andare? Si dice comunemente, poi, che da noi approdano soprattutto migranti economici, e non richiedenti asilo, in fuga da guerre e regimi autoritari. Ma la composizione etnica delle vittime di questa tragedia stavolta sembra smentire la tesi. E in ogni caso non esiste la possibilità per chi cerca un lavoro dipendente nel nostro paese, di entrare legalmente: il Testo unico sull’immigrazione pretende che debba avere un contratto già in tasca, come se fosse possibile essere assunti senza che il datore di lavoro ti abba mai visto all’opera.
Cosa bisogna fare, allora? Intanto, soccorrere in mare, perché è il diritto internazionale che lo impone. Elly Schlein, appena eletta segretario del Partito Democratico, ha proposto una “Mare Nostrum” che abbia per protagonisti anche gli altri partner europei, ricordando l’operazione di soccorso avviata nel 2013 dal nostro governo dopo la terribile tragedia di Lampedusa, che costò la vita a 368 persone. Poi occorre battersi per cambiare le norme del cosiddetto “Regolamento di Dublino 3” che impone al primo paese di approdo di farsi carico delle domande di asilo: una misura che molto improvvidamente sottoscrivemmo, essendo geograficamente una delle nazioni più esposte agli sbarchi. Non ci stancheremo di ricordare che nel 2017 il Parlamento europeo aveva approvato a grande maggioranza una riforma di “Dublino” a noi favorevole: prevedeva una redistribuzione delle domande in base ai legami personali del richiedente asilo, alla popolazione e al Pil di ciascun paese. Ma noi non ci battemmo per il passo decisivo: far approvare la riforma dal Consiglio dell’Unione europea, e questa si arenò. Bisogna a tutti i costi riproporla.
Un’altra azione da intensificare, assieme ai partner europei, è la creazione di “corridoi umanitari”, sul modello di quelli proposti già da svariati anni dalla Comunità di S.Egidio. E’ importante, naturalmente, anche la lotta congiunta, con il coordinamento di azioni di “intelligence”, ai trafficanti di esseri umani. Impresa tuttavia quanto mai complessa. Al massimo infatti si riescono a intercettare gli scafisti (tre di loro sono stati fermati a Crotone) che in genere sono l’anello debole dell’organizzazione, se non addirittura dei migranti ai quali è stato messo il timone in mano. Infine l’Italia deve decidersi a introdurre dei permessi di soggiorno per ricerca di lavoro, della durata ad esempio di un anno e naturalmente contingentati, per poter entrare nel nostro paese alla luce del sole, versando su un conto le spese occorrenti al ritorno in patria, se non si trova un contratto. Altro che arricchire i trafficanti.