Sono venuti in Italia per cercare lavoro, e adesso lo offrono anche agli altri. Cresce, nonostante la difficile congiuntura economica, il numero degli imprenditori immigrati nel nostro Paese, in controtendenza con quello degli italiani. Il Centro studi e ricerche Idos ci fa sapere infatti che sono aumentati del 4,3 per cento dal 2019 alla fine del 2021, mentre le imprese gestite da persone nate in Italia sono diminuite dello 0,9 per cento. I primi dati disponibili per il 2022 mostrano ancora un’ininterrotta tendenza alla crescita, anche se a un ritmo più lento (0,8 per cento).
Ma esattamente quante sono queste “imprese immigrate”? Le Camere di Commercio ne hanno registrate alla fine del 2021 ben 642 mila 638. Per capirci, è come se in una domenica del campionato di calcio, questi imprenditori si dessero appuntamento negli stadi della serie A: occuperebbero tutti i posti disponibili e anzi qualcuno dovrebbe rimanere fuori. O, per continuare a stimolare l’immaginazione, è come se una città un po’ più grande di Genova, e delle stesse dimensioni di Palermo, fosse interamente abitata da imprenditori nati fuori dai nostri confini.

Imprenditori, ma anche imprenditrici, perché circa un quarto di queste aziende (156 mila in numero assoluto) sono condotte da donne immigrate. Il numero è cresciuto costantemente e vistosamente negli ultimi dieci anni: sono infatti aumentate del 48,1 per cento tra il 2011 e il 2021, e del 2,7 per cento, in particolare, tra il 2020 e il 2021. E’ la prova del ruolo sempre più attivo ricoperto dalle donne nei processi migratori e del loro protagonismo economico nei percorsi di integrazione. Senza contare che molte altre sono “contributrici silenziose” di aziende familiari gestite da uomini, fornendo lavoro non retribuito e prendendosi cura della famiglia.
Le aziende immigrate costituiscono oggi il 10,7 per cento dell’intero tessuto imprenditoriale italiano. Certo, non bisogna pensare a unità di grandi dimensioni. Del resto, in Italia prevalgono da sempre le micro e piccole imprese. Le “ditte individuali” che peraltro possono avere dipendenti, rappresentano fra tali imprese il 75,5 per cento, a fronte del 48,5 per cento delle aziende gestite da italiani. E sono le ditte individuali che sembrano subire gli effetti della pandemia in modo più pesante rispetto ad altri tipi di aziende. Sta emergendo però, la formula delle società di capitale, che nel 2021 rappresentavano il 16,9 per cento del totale delle iniziative autonome degli imprenditori migranti, cresciute fortemente rispetto al 2011, quando ne costituivano solo il 9,6 per cento. E’ dunque in atto una spinta verso modelli organizzativi più complessi e meno esposti alle contingenze, anche se le ditte individuali continuano ad essere più accessibili e più conformi alle capacità economiche degli immigrati e ai loro modelli gestionali.
Lo studio dell’Idos mostra poi che più della metà delle iniziative autonomo-imprenditoriali degli immigrati investono due soli settori: il commercio (32,9 per cento) e l’edilizia (23,5 per cento): quest’ultima in forte ascesa negli ultimi due anni dal momento che le costruzioni hanno goduto di incentivi governativi. In aumento, fra le altre, le attività di alloggio e ristorazione, noleggio, agenzie di viaggio e servizi alle imprese e alla persona. Il 79 per cento dei titolari è di origine non comunitaria. I marocchini al primo posto (12,9 per cento) davanti a romeni (11 per cento) e cinesi (10,7 per cento).
Ma come fare a rendere questo tessuto imprenditoriale ancora più solido e utile all’interesse nazionale? L’Idos fornisce due suggerimenti: rimuovere i troppi ostacoli giuridici e burocratici che scoraggiano la nascita e la crescita di queste imprese e fornire incentivi per renderle più solide, sfruttandone così la loro vocazione transnazionale, che potrebbe portare gli imprenditori ad aprire l’economia italiana nei loro Paesi d’origine.
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