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L’arte di vivere in America

All'Istituto Italiano di Cultura, "It Occurs to me that I Am America", fino all'8 luglio

Mauro LucentinibyMauro Lucentini
vivere in america italian artists

Maria Rapicavoli, tracce#2

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Otto giovani artisti italiani attivi a New York espongono le loro opere all’Istituto Italiano di Cultura, su Park Avenue, nel centro elegante di Manhattan. Non condividono principi stilistici, quindi non si può parlare di un loro “movimento” d’arte; ciò che piuttosto li unisce sono, come dice il titolo della mostra It occurs to me that I am America, posizioni critiche nei confronti del Paese in cui lavorano. Del quale, precisa un loro brevissimo manifesto, vorrebbero “scoprire il volto reale. Indagando e ridiscutendone le ambiguità, tra realtà e mito”.

Con un’iniziativa del tutto nuova, l’Istituto ha chiesto a quattro curatori d’arte italiani operanti in America, Ludovica Capobianco, Alessandro Facente, Veronica Santi e Giulia Trabaldo Togna, di proporre alcuni artisti. Attraverso una scelta curatoriale condivisa si è così arrivati a un gruppo di sette pittori, scultori e un fotografo che hanno poi presentato opere rispecchianti, nelle  intenzioni, la loro situazione in America, a un tempo di stranieri e di partecipanti ai problemi della comunità in cui lavorano.

Per il modo di esprimersi gli otto artisti possono essere divisi in tre gruppi. Uno, costituito da Matteo Callegari, Alessandro Del Pero e Andrea Mastrovito, agisce a metà strada tra l’astratto e il figurativo, con pitture che trovano in questa duplicità una forma di corrispondenza alle ambiguità che scorgono sul panorama americano. Mastrovito, per esempio, esibisce un enorme collage ad intagli acquarellati di carta morbida intitolato American Philosophy of Composition che, in forme e colori di strana, quasi musicale, evanescenza intende rappresentare una corrida, con personaggi americani e messicani che alludono al dominante problema dell’immigrazione. Quello di Callegari è un grande olio su tela brulicante di minute forme sinuose che compongono uno sfondo da cui colore e  chiaroscuro fanno appena trasparire un’immagine umana, allusione a una storia presente dietro la storia.  Del Pero presenta su tela e colori acrilici un intreccio di membra umane commiste a specie vegetali, intreccio a un tempo doloroso e potente, a cui non esita a dare il titolo di Pietà intendendolo come metafora dell’ambiente culturale e umano incontrato a New York; come un uomo e una donna, magari un Cristo e sua Madre, come piante che soffrono per sopravvivere in uno spazio alieno.

Un altro gruppo è composto da tre istallazioni con riferimento specifico al sito, una di Arianna Carossa intitolata The failure of American appearance,  sculture tratte da pezzi di manichini e mobili di una nota ditta americana di mode femminili andata recentemente in bancarotta. Maria Domenica Rapicavoli, catanese, mette insieme frammenti di aerei tedeschi precipitati sull’Etna durante la guerra e disegni su alabastro di immaterialità celestiale, il tutto per rappresentare i rapporti militari, politici ed economici tra Stati Uniti e Italia nel Dopoguerra. Ancora più ideologicamente esplicito è Danilo Correale, che ha montato nella biblioteca dell’Istituto su un lucido scaffale di metallo un ordinatissimo pacchetto di libri, tutti editi da una casa Ortica che si definisce una cooperativa anarchica e dovrebbero alludere in maniera allegorica ai rapporti di vita e di lavoro incontrati in America dall’artista.

Completano l’esibizione un fotografo, Renato D’Agostin, e quello che potrebbe essere detto, almeno ai fini di questa mostra, un quasi-fotografo, Gian Maria Tosatti. Il primo ha compiuto un giro di oltre diecimila chilometri in America sulla sua motocicletta fotografando da costa a costa il panorama, le città e gli abitanti, creando in una serie di immagini  equilibri compositivi che rispecchiano in modo nuovo e toccante la vita di questo immenso Paese. Tosatti ricerca una integrazione tra strutture architettoniche e arte visiva mediante l’istallazione  di venti fotografie Polaroid, ognuna rappresentante fumaioli in cima agli edifici di New York  dalle quali emana,  dietro la familiare apparenza, un senso di disordine.

È difficile rendere giustizia in poche parole a ciascuno di questi interessanti e intraprendenti protagonisti italiani della vita culturale americana, anche se il loro rapporto con la terra in cui operano e l’interpretazione ideologica che danno ai loro prodotti possono sicuramente essere fonte di dibattito; e non si può che esprimere un vivo apprezzamento per  l’Istituto di Cultura  che ce li ha portati più vicini. La mostra rimarrà aperta al 686 di Park Avenue fino all’8 luglio.


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Mauro Lucentini

Mauro Lucentini

Sono nato e vissuto a Roma che però ho abbandonato più di mezzo secolo fa per fare il giornalista in varie parti del mondo. Ne ho tratto una specie di complesso di colpa nei confronti della mia città natale, complesso che ho un po’ alleviato scrivendo da lontano una Grande Guida di Roma, che si vende in diverse lingue in diversi paesi. A New York venni per rimanerci tre o quattro anni, invece ci incontrai la ragazza più carina e dolce del mondo così ci sono rimasto, mettendo su, come si suol dire, famiglia. Lei però, pur essendo tanto più giovane di me, è poi scomparsa come un fiorellino che muore. In questa lunga carriera, cominciata quasi da bambino, ho sempre scritto sia di politica che di arte e di questo non mi pento.

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