Simona Siri è una giornalista e scrittrice italiana, che vive da diversi anni negli Stati Uniti. Collaboratrice di Vanity Fair, La Stampa e Il Foglio, ha scritto anche per giornali e riviste americane come Vulture, Washington Post e New York Daily News. Nel suo ultimo libro, Mai Stati così Uniti, due voci diverse: quella di suo marito Dan, newyorkese e la sua, italiana. La coppia racconta in uno scambio continuo l’Italia e gli Stati Uniti, due culture inconciliabili, due punti di vista diversi che si incontrano solo per amarsi.
Come si fa a non invidiarla? Semplice, apri il suo profilo Instagram e la trovi in lacrime di gioia dopo aver fatto il vaccino contro il coronavirus. Attraverso la sua divertente e pazza vita, Simona racconta riga dopo riga gli Stati Uniti e improvvisamente ti fa ritrovare con il cuore italiano nelle difficoltà che impone la cultura americana e con i piedi ben saldi sulle strade di New York, dove inciampi nella dura realtà, ma mentre ti rialzi punti gli occhi verso i grattacieli, come in una delle più belle commedie romantiche che si possano leggere. L’abbiamo raggiunta nella sua nuova casa di New York e ci ha accolto insieme a sua figlia Ella, che ha provato a raccontarci l’America con un linguaggio tutto suo fatto di versi e sorrisi, mentre Simona cercava di farle mangiare i cereali raccontandoci che cosa è invece per lei vivere oggi negli Stati Uniti.
Un libro che cambia spesso i registri: spassoso, interessante, divulgativo per molti versi anche duro. Non è affatto tutto oro quello che luccica sotto i grattacieli di New York. Quando ti arrabbi per gli eccessi e le contraddizioni dell’America, c’è poi qualcosa di più grande e forte che ti trattiene sempre nonostante tutto?
“L’America è il paese che mi ha regalato un marito e una figlia, e la ringrazio già solo per questo. È vero c’è qualcosa qui, c’è sempre una spinta in avanti che è affascinante, nonostante tutti i difetti e le cose che mi danno fastidio di questa società e che elenco nel libro, percepisco che c’è sempre del movimento verso il meglio. L’America è un progetto che non finisce mai, nelle sue imperfezioni e atrocità ti tende sempre verso qualcosa”.
Dopo che tu e tuo marito Dan vi siete ritrovati a battibeccare sul divano di Monica Bernheim, psicoterapeuta ebrea dell’Upper West Side, oltre a capire che la tua vita era diventata un film di Woody Allen, a quale incomprensione culturale anche la terapia si è rassegnata?
“Una delle accuse che continuo a fare a Dan è di essere poco realista e visionario. Loro hanno dentro questa positività, quest’idea che domani è sempre meglio di ieri, noi italiani tendiamo invece alla nostalgia, al tutto era meglio prima. Questa è una differenza grandissima tra le due culture, non ci sono nostalgie, recriminazioni, il dopo è sempre meglio del prima. Non ci si guarda mai indietro, in questo modo però perdono facilmente la memoria e nelle relazioni personali ci si affeziona poco perché tutto è transitorio. Ha chiuso anni fa uno dei miei ristoranti preferiti, per me è stato un dramma, un piccolo lutto, per Dan, la normalità, se ne apre un altro”.
La ami e la odi, diverse e simili, inconciliabili eppure indivisibili. Se dovessi descriverla che tipo di amica è New York?
“È una di quelle amiche che se la tira un po’, spesso in modo insopportabile, però nei momenti di difficoltà esce fuori la sua anima e c’è un cuore che batte. È un’amica talmente bella che può permetterselo di darsi delle arie”.
Nel tuo libro racconti che “l’assenza di opzioni, gli americani la vivono come una limitazione della libertà personale, la temono almeno quanto il comunismo”. Scegliere equivale a essere liberi, è in fondo un segno di autodeterminazione, ma tanta scelta equivale spesso anche a perdita di tempo, che non collima con il pragmatismo americano, e come se ne viene fuori?
“Loro ne vengono fuori con le figure dei consulenti, degli esperti a cui ti rivolgi quando devi prendere delle decisioni. Ci si affida molto a queste figure: lo stilista che ti consiglia i vestiti da comprare, l’arredatore di interni che ti consiglia i mobili per la casa, il consulente che aiuta i genitori a scegliere il college per i figli; per ogni scelta c’è una figura professionale che ti aiuta. La scelta nella società americana è immensa senza queste figure professionali non se ne verrebbe fuori”.
A New York quindi si chiede parere per qualsiasi cosa a un esperto, non come avviene in Italia che il più delle volte ci si rivolge agli amici per i consigli. Il detto “chi trova un amico trova un tesoro” non vale in America?
“Sai che non lo so se esiste questo detto. Lo chiederò a Dan. Esiste però un modo differente di gestire le amicizie, quelle del college sono le amicizie che si portano dietro per tutta la vita, è una dei quelle tappe talmente formative che permette di costruire relazioni solide che durano per sempre”.
L’America è la terra dell’abbondanza, gli americani hanno un rapporto particolare con i soldi e con il debito, si vive di prestiti e di innumerevoli carte di credito nel portafogli, l’Italiano invece è un risparmiatore e metti i soldi sotto il materasso. È secondo te un rapporto sconsiderato o rilassato che si ha con il denaro?
“Sono dei pazzi, degli incoscienti con i soldi. Già a 17 anni sono indebitati per andare al college. Io fortunatamente ancora non sono stata tentata dal meccanismo e non spendo più di quello che ho, sono ancora una di quelle persone con la testa sulle spalle. A New York nessuno può permettersi di viverci eppure ci riusciamo tutti”.
Divertentissimo il racconto del primo appuntamento con tuo marito, dove indossavi un abbigliamento curato ma semplice e lui interpretò la decisione come mancanza di interesse e del tutto inappropriata. Il dating (l’incontro sentimentale) in America è una cosa molto seria, è un’attività professionale, dotata anche di diversi manuali. New York è la città più competitiva degli Stati Uniti e ogni aspetto della vita sociale, sentimentale, diventa una corsa a chi ce la fa. Apparire o essere, forma o sostanza, Italia e America, si può trovare un compromesso?
“Ho sposato un americano e il compromesso l’abbiamo trovato. È stato difficile, anche se è quello che ci caratterizza come coppia. Non saremmo noi. Forma e sostanza possono unirsi. I primi appuntamenti hanno delle regole ferree, non ci perdono molto tempo se le cose non vanno bene. Le donne soprattutto sono molto selettive e conducono il gioco. Portano i pantaloni a casa e sono potentissime qui in America. Le donne sono viziate nella relazione e trattate come principesse, questo deriva dall’educazione che ricevono verso l’indipendenza e nel credere in loro stesse. Quando litigo con Dan gli rinfaccio che un’americana non si sarebbe mai presentata al secondo appuntamento, come invece ho fatto io”.
Tuo marito Dan scrive che “per lui il cibo è una fonte di piacere oltre che di sostentamento, per Simona è un menu infinito di giudizi morali. Per gli italiani il cibo è quasi una religione”. Le differenze sul cibo affondano in abitudini infantili, in gusti personali radicati in una tradizione di forte emotività difficilmente da persuadere. Quando tuo marito Dan si è proposto di fare le fettine panate per cena e le ha infarinate invece che su un piatto in una busta di plastica, hai capito che ci sono differenze culturali che con tutta la buona volontà e amore non troveranno mai un punto di incontro. È difficile rispettare i codici culturali e morali diversi dai nostri quando di quelle differenze non si è solo semplici spettatori ma diventano protagonisti della propria vita?
“Non si può litigare su tutto e così ho deciso le battaglie su cui valeva la pena combattere, continua ad avere la sua ossessione per le buste di plastica come tutti gli americani”.
Se su tante differenze si riesce a chiudere un occhio, per gli italiani non sulla salute, che è un diritto inviolabile, contrariamente alla sanità americana che è inefficiente e costosissima. Tuo marito ha capito attraverso una tua seria esperienza personale quanto possa essere sbagliato e difficile il sistema sanitario americano e quanto invece possa essere protettivo e rassicurante il sistema Italiano. Quanto è terrorizzante ammalarsi in un sistema sanitario cosi ingiusto?
“Fa paura. Loro non conoscono altro quindi ci sono abituati e non è così scioccante. È un tema che sta cambiando molto nell’opinione pubblica, la maggioranza degli americani è favorevole a una qualche forma di sanità pubblica. Sono convinta che ci sarà una riforma, anche con la situazione pandemica gli americani si stanno accorgendo di quanto sia disfunzionale e folle questo sistema”.
Fa parte della famiglia anche Ugo, il vostro cane italianissimo. A quali stranezze americane si è dovuto abituare? E soprattutto anche lui ha paura di sentirsi male per non poter essere curato perché i veterinari sono costosi?
“I veterinari sono costosissimi, abbiamo speso più di mille dollari per fargli la pulizia dei denti. In America castrano tutti i cani e cosi Ugo è uno dei pochi cani non castrati, non possiamo portarlo nella pensione dei cani, perché tutte le cagnoline impazziscono, è un latin lover italiano”.
Sei la protagonista di una bellissima storia di adozione che ti ha portato a essere mamma di una adorabile bambina afroamericana di nome Ella Mae, in onore di Ella Fitzgerald e Mae Jemison, prima donna nera nello spazio. “Corriamo a prenderla” queste sono le parole che tuo marito Dan ha detto quando avete ricevuto la telefonata. La tua è una famiglia multirazziale e l’adozione è un concetto complesso, perché accanto all’amore smisurato ci sono per forza anche sentimenti contrastanti e forti che hanno a che fare con l’abbandono e il dolore, con l’identità e l’appartenenza. Senti il peso della responsabilità di farla crescere in un’America dilaniata dal razzismo?
“Si, è un mio pensiero costante che mi preoccupa. Soffro se penso che possa essere vittima di razzismo, giudicata per il colore della sua pelle o avere una vita più difficile rispetto a un suo amichetto bianco, è lacerante. Dan però è positivo e sostiene che quando Ella sarà grande l’America sarà cambiata, come già sta avvenendo, non si eliminerà il razzismo ma l’America in cui crescerà sarà diversa. L’America è sempre meno bianca”.
Cosa consiglieresti a una giovane ragazza che sogna in grande con il desiderio di trasferirsi in America e cosa invece alla tua Ella ragazza, se un giorno volesse trasferirsi in Italia ?
“A una ragazza dico che è giusto sognare in grande ma di non saltare nel vuoto e venire informata e preparata, perché le cose qui sono difficili. Alla mia Ella direi di apprezzare e di aprire gli occhi alla bellezza della cultura italiana. Ora il desiderio più grande è di farla conoscere ai nonni che l’aspettano da più di un anno in Italia”.