Con immensa tristezza annunciamo la scomparsa del Professor Salvatore Rotella, avvenuta a New York la notte tra l’11 e il 12 agosto. Nato a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) nel 1934 e cresciuto ad Asmara, Eritrea, Rotella arrivò dall’Italia negli USA nel dicembre del 1951. Dopo la laurea alla CUNY, il Master a Chicago, il ritorno in Italia con una Fulbright per un dottorato all’Università di Pavia e infine il PhD all’University of Chicago, il Dr. Rotella iniziò la sua carriera universitaria in cui, oltre a insegnare scienze politiche, ascese al ruolo di Chancellor per tutto il sistema delle City Colleges of Chicago. Dal 1983 al 1988, Rotella ebbe sotto la sua responsabilità gli otto college della metropoli che preparavano i giovani alle carriere nei servizi pubblici per la città e anche per i militari degli Stati Uniti dislocati all’estero. Rotella creò il “Public Service Institute” e il WYCC Educational Tv Channel, che all’epoca erano iniziative molto innovative.

Lasciata Chicago nel 1989, si trasferì in Long Island al Nassau College per poi diventare, nel 1992, il Chancellor del Riverside College, California. Anche nel grande sistema delle università pubbliche della California, le sue iniziative furono molto innovative e la “Digital Library” porta il suo nome. Dopo il suo pensionamento, Rotella torna a New York, dove ha continuato nelle sue ricerche accademiche e organizzare conferenze tra studiosi di scienza della politica con il collega e amico Mario Mignone al Center for Italian Studies della SUNY Stony Brook. Nei suoi studi di questi anni, in particolare era affezionato ad una storia della comunità ebraica in Sicilia. Tra le sue ultime iniziative, era orgoglioso di essere riuscito a portare in mostra a New York i disegni “riscoperti” di Carlo Levi durante la sua cecità.
Salvatore Rotella faceva parte del Board of Advisors de La Voce di New York. Qui di seguito il ricordo del Prof. Rotella da parte del direttore e suo amico, Stefano Vaccara.
Ho conosciuto il Prof. Salvatore Rotella in uno dei convegni che il comune amico, il magnifico Prof. Mario Mignone, organizzava alla SUNY di Stony Brook. Sarà stato il 2006 o 2007. Mignone lo chiamava Sal, ma per me lui resterà sempre Salvatore, perché così mi ricordava più la Sicilia, mentre Sal mi suonava troppo americano e Totò un diminutivo esagerato per un professore del suo calibro. Ricordo che dopo un mio intervento, lui si avvicinò e mi disse: “Stefano parleremo dopo del tema della conferenza, ma adesso dimmi: da che parte vieni della Sicilia? Io da Barcellona…”

Ogni volta che Mignone mi invitava per uno dei suoi convegni o lezioni con gli studenti del suo istituto, io finivo per passare gran parte del tempo col Prof. Rotella, per parlare d’Italia, Sicilia e… Africa! Già, in realtà Salvatore si sentiva non solo americano, italiano e siciliano, ma anche africano! Era cresciuto fin dalla tenera età ad Asmara, nell’Eritrea parte dell’”impero” di Mussolini e che era stata una delle prime colonie italiane antecedenti alle conquiste fasciste. Rotella faceva parte di una delle numerose famiglie, soprattutto siciliane, che nella più vicina Libia o nella lontanissima Eritrea, erano emigrate per le vantaggiose condizioni che l’Italia assicurava a chi faceva il balzo nelle colonie. Suo padre Sebastiano, carpentiere, portò la famiglia in Eritrea nel 1938. Colonialisti? Lui essendo arrivato ad appena 4 anni d’età, non si sentiva un occupante, ma proprio un africano! Un certo senso di colpa ereditato per i peccati dell’ Italia in Africa doveva averlo, certo, però Salvatore, nelle nostre cene con Mignone alla SUNY, dove spesso partecipava anche il fratello Vittorio – prof. d’italiano alla CUNY – ci raccontava che in Eritrea gli italiani non si erano comportati come in Libia o in Etiopia. Ad Asmara, mi diceva, gli italiani avevano lasciato un ricordo meno di violenze e più di “costruzione”. Salvatore ricordava Asmara, rispetto a tante altre città dell’Africa, di una bellezza unica, con viali e case di architettura italiana incastrate con armonia nell’ambiente locale. Il Prof. Rotella, quel legame con quella città africana e soprattutto il popolo eritreo, lo manterrà per tutta la vita.

Fu proprio grazie all’ Eritrea che diventammo, da semplici conoscenti che con una certa simpatia si incontravano ai convegni, a veri amici che cominciarono a vedersi e con frequenza. Infatti sapendo che lavoravo dall’Onu, dieci anni fa Salvatore mi chiamò per dirmi se stavo seguendo le vicende dell’Eritrea e le sanzioni che il governo Obama, tramite la sua allora ambasciatrice d’acciaio Susan Rice (si, proprio quella che fino a pochi giorni fa era la concorrente di Kamala Harris per la vicepresidente di Biden) voleva rafforzare nei confronti del paese africano. Gli dissi che seguivo ma come tutto il resto: se voleva potevo dargli qualche notizia in più. Allora mi disse che lui era in contatto con la missione Eritrea all’ONU per cercare di limitare i danni dell’offensiva di Obama-Rice contro il regime sempre più opprimente di Isaias Afwerki. Salvatore stava usando tutte le armi a disposizione della diplomazia per assecondare i suoi sentimenti d’affetto per il popolo eritreo e per quello che fino alla fine dei suoi giorni sentirà come anche il suo paese. Rotella detestava i generali che si fanno eleggere presidenti per poi trasformarsi in dittatori, ma sapeva che col suo lavoro poteva alleviare le sofferenze che alla fine ricadevano solo nella popolazione eritrea. Così in quei pranzi nel bel ristorante sul tetto del Metropolitan Museum di cui lui era parte del club, per scambiarci idee sulla politica estera USA, sull’Africa o l’Europa, diventammo amici. E da lì passammo ore e ore di conversazione sullo stato dell’Italia e della nostra Sicilia.

Devo al Prof. Rotella, ai suoi consigli e incoraggiamenti, se mi decisi in quei mesi a ricostruire in un libro alcune idee che avevo sulla mafia e l’omicidio del Presidente Kennedy (avevo da poco iniziato a insegnare al Lehman College un corso sulle origini della mafia in America, in quell’università che lui frequentò al suo arrivo a New York, che allora si chiamava Hunter in the Bronx). Durante quei pranzi al Metropolitan e leggendo poi uno dei primi capitoli, mi incoraggiò a continuare per quello che diventerà il mio libro Carlos Marcello: l’uomo che odiava i Kennedy. Forse quella scintilla del suo interesse per quella mia ricerca, nacque quando gli dissi che quel figlio di siciliani diventato capo della famiglia mafiosa di New Orleans e poi il più potente boss degli Stati Uniti, era nato in Africa, a Tunisi, e da lì era arrivato da bambino negli USA… Già, chissà, se invece di andare subito a studiare all’Hunter in the Bronx, Salvatore fosse andato a lavorare in un bar malfamato di Brooklyn, come gli sarebbe apparsa diversa l’America…

La nascita de La Voce di New York la devo anche a Salvatore Rotella. Infatti in quei mesi in cui mi invitava ai pranzi al Met, mi chiedeva sempre del mio lavoro per America Oggi, che apprezzava come giornale, chiedendo perché non si facesse più di quello o di quell’altro. Io gli confidavo le mie preoccupazioni sulla situazione del giornale dato che continuavano a tagliare gli stipendi dei giornalisti avvertendoci che la situazione finanziaria del giornale andava a peggiorare (continuavano ad arrivare i soldi dallo stato italiano in supporto della stampa italiana all’estero ma, a parte la crisi dei media in genere, purtroppo AO aveva fatto degli investimenti immobiliari con una nuova sede in New Jersey rivelatasi troppo grande e dispendiosa). Così quando alla fine la situazione divenne insostenibile e divenne inevitabile la mia separazione col giornale per cui, in 18 anni di lavoro, avevo ricevuto dal direttore Andrea Mantineo non pochi insegnamenti – soprattutto sull’indipendenza come condizione della credibilità per un giornalista – e dato tutto della mia passione di giornalista, Salvatore fu colui che più di tutti mi incoraggiò nell’andare avanti con l’idea de “La Voce di New York”: creare un giornale italiano online protetto dal Primo Emendamento della Costituzione USA.

Considero Salvatore Rotella un intellettuale della praticità perché le idee che lui sfornava sulla scienza della politica non le spargeva soltanto nei Journal accademici, ma cercava di rimboccarsi letteralmente le maniche per dargli una vita concreta. Per questo continuava a viaggiare molto, anche dopo aver raggiunto la pensione ed essere tornato a New York con la sua amatissima moglie Pilar, catalana e anche lei professoressa universitaria di letteratura spagnola. (Tra le risate, Salvatore mi raccontava che l’aveva conosciuta, 60 anni fa, quando entrambi erano graduate students a Chicago, così: “Ciao, io sono Salvatore come ti chiami e di dove sei?” “Io sono Pilar e vengo da Barcelona”. “Anche io!”…). Rotella tornò anche in Eritrea, per cercare di studiare un piano per un progetto di campus universitario pubblico, lui che era uno dei maggiori esperti americani su come uno stato potesse assicurare un’istruzione superiore di qualità anche alle fasce di popolazione che per generazioni non erano mai andate oltre la scuola dell’obbligo, come fece a Chicago e poi in California. Come andò a finire in Eritrea? “Afwerki aveva all’inizio mostrato interesse, probabilmente poi intuì che l’istruzione non faceva bene al mantenimento del suo potere e silurò tutto il progetto” mi raccontava.
Sempre nel suo essere intellettuale al servizio delle idee pratiche, gli ultimi anni porteranno il Professor Rotella nella sua Sicilia, all’Università di Palermo, per un progetto tanto ambizioso quanto coerente con la sua vita: costruire un nuovo dipartimento di studi dedicato al Mediterraneo e all’immigrazione. Già, la sua Africa sempre nel cuore, e a questo progetto pensava mentre migliaia di donne e bambini eritrei, somali, sudanesi e di tanti altri paesi africani cominciavano a sparire nel canale di Sicilia, inseguendo il sogno di una vita più dignitosa per i loro figli.

Quel progetto che Salvatore stava mettendo a punto e a cui si era tanto dedicato con numerosi viaggi e che includevano anche visite alla cittadina di Mazara del Vallo, tanto cara al suo amico siciliano conosciuto a New York (mi raccontò che il vescovo Domenico Mogavero fosse molto sensibile al tema immigrazione) alla fine non riuscì a portarlo a termine, almeno per come avrebbe voluto lui. Con una smorfia nel viso, lui che sorrideva sempre, mi accennò che i troppi cambi di governo sia all’università che al ministero, avevano rallentato tutto e a lui cominciarono a mancare le energie per continuare.
Uno dei suoi ultimi compiti da intellettuale della concretezza, minore ovviamente rispetto a quelli della sua lunga vita ma affrontato con la stessa passione, riguardò la Voce di New York. Come forse alcuni lettori ricorderanno il giornale l’anno scorso ebbe una forte crisi di “vision” societaria. Tra gli azionisti del giornale fondato da chi scrive si creò una profonda spaccatura su come salvare il giornale dalla sua crisi di risorse – mai di lettori e contenuti – per poterlo mantenere proteggendone l’indipendenza e il valore del “Liberty meets Beauty”. Il Prof. Rotella, con altri suoi colleghi e valorosi membri del Board of Advisers, come Anthony Tamburri, Donna Chirico, Grace Russo Bullaro, Stefano Albertini e Massimo Jaus, si prodigò affinché certe divisioni fossero ricucite per assicurare un futuro alla Voce invece che diventare l’ennesima storia di fallimento nella comunità italiana.
Durante i mesi del lockdown da coronavirus, per lui prolungato dalla sua malattia ai polmoni che gli impediva di uscire quando la situazione a New York migliorò a fine maggio, Salvatore continuò dal suo appartamento di Manhattan a rimboccarsi le maniche per mettere al servizio del giornale la sua dote di intellettuale della praticità. Così a marzo mi chiamò, e con quella sua voce che sembrava sempre più stanca ma mai spenta, mi disse: “Stefano, continuate a fare un immenso lavoro con La Voce. Ho pensato che Pro Pubblica sta facendo degli ottimi servizi sulla pandemia. Siccome si possono usare, che ne pensi che te li traduca io dall’inglese all’italiano?”. Gli risposi che era una bellissima idea ma non volevo che si affaticasse troppo. Mi rispose: “No guarda, i polmoni sono quello che sono ma così tengo in moto il cervello che stando rinchiuso a casa si sta inceppando…”.
La Voce di New York, grazie al Prof. Rotella, ha pubblicato sulla pandemia, in italiano, quelle ottime inchieste di ProPublica, giornale online che da dieci anni ha anticipato i tempi sul futuro del giornalismo e di cui Salvatore era molto fiero perché il figlio Sebastian, già noto giornalista d’inchiesta del Los Angeles Times, ormai da anni è tra le firme di punta.

Quando è arrivata la telefonata di Sebastian che mi informava che suo padre aveva intrapreso il suo ultimo viaggio, stavo per chiamarlo io proprio perché mi doveva consegnare una di quelle traduzioni. Di colpo, ho capito che non avrei mai più sentito quella voce allegra esclamare: “Stefano! Come stai? Non ti fermare più, la Voce è una bomba”, come faceva ogni settimana. Una volta congedato al telefono Sebastiano (con la “o” alla fine, così lo chiamava il padre), ho sentito tornare un dolore fortissimo che non sentivo da dieci anni. Ho realizzato che il mio amico Salvatore se ne è andato nelle stesse ore in cui il 12 agosto, 2010, scomparve mio padre. Il Prof. Rotella cominciò a invitarmi frequentemente a pranzo e diventammo amici proprio alla fine di quell’estate, in cui io avevo perso da poco una colonna di riferimento della mia vita. Salvatore Rotella in questi dieci anni era diventato per me non solo un caro amico ma ancora di più: per come si prodigava nei consigli che dava e soprattutto per il coraggio che mi infondeva, sembrava come se questo professore arrivato in America dall’Eritrea passando per la Sicilia, di colpo avesse assunto il ruolo di “messaggero” di quel padre perduto. Del resto, avevano molto in comune: anche Luigi Vaccara, mio padre, si era “ammalato” d’Africa, lavorando da giovane diversi anni in Sierra Leone e in altri paesi del Continente dove tornò per tutta la vita.
Per questa sua funzione di guida intellettuale nella praticità delle sue idee, con questo giornale che dirigo saremo sempre grati al Prof. Salvatore Rotella. Se la Voce continuerà ad avere un futuro, per buona parte è grazie anche alla spinta e all’esortazione a non mollare che il Prof., nei momenti più difficili, non mi fece mai mancare.
Alla sua Pilar, ai figli Sebastian, Carlo e Salvatore Jr, alle nuore, ai nipoti, al fratello Vittorio, dalla Voce di New York le più sentite condoglianze per la scomparsa dell’amatissimo marito, papà e nonno.
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