Il primo uomo capace di attraversare l’Atlantico, in quel famoso autunno del 1492, è passato alla storia.
Di questi tempi, le sue statue vivono un momento burrascoso, ma la grandiosità di quell’impresa rimane comunque una pietra inscalfibile nella memoria collettiva. Oggi, la traversata oceanica è senza dubbio più agevole. Basta salire su un aereo, sedersi al proprio posto e guardare un paio di film. Nulla di più semplice.
Ma cosa succede, invece, nelle tappe di questo percorso, quando a sconvolgere la quiete internazionale arriva un’inaspettata pandemia?
Roberto è un giovane studente italiano che, da due anni, frequenta un’importante accademia di sceneggiatura situata nel cuore pulsante di Chicago. Nato e cresciuto in una piccola città dell’Emilia, nel 2018 si trasferisce negli States per inseguire il suo sogno: farsi strada nell’intricato mondo del cinema americano. L’aria fredda dell’Illinois lo fa sentire a casa e, fino al Natale del 2019, ogni cinque mesi torna con una valigia colma di storie da raccontare.
Lo scorso febbraio, però, accade qualcosa di insolito. Dai genitori e dagli amici rimasti in Italia, Roberto inizia a sentir parlare di coronavirus. Nulla di preoccupante. In quei giorni è ancora un’influenza asiatica che, a detta di esperti e virologi, non attaccherà in modo aggressivo lo stivale. Invece passano le settimane, e quella che in principio sembrava soltanto una minaccia lontana, si abbatte con forza prima sull’Europa e poi sugli USA.
A Roberto vengono concessi un paio di giorni per fare i bagagli e lasciare l’America, ma lui sceglie di restare. Vive così l’intero lockdown lontano dalla famiglia, contando sulla compagnia di un coinquilino e su una buona connessione Internet con la quale riesce a seguire le lezioni online e a parlare con l’Italia. Poi, quando finalmente arriva il caldo di luglio, per Roberto è il momento di tornare.
Arrivato all’aeroporto di Chicago, la situazione sembra serena. I viaggiatori ci sono, ma l’affluenza è minore rispetto al solito. I controlli procedono tranquilli, le persone cooperano e le file scorrono veloci. “Gli addetti alla sicurezza – racconta Roberto – provano a far mantenere le distanze, ma non è sempre facile rispettare tutte le norme previste dal governo”.
Al controllo passaporti, la prima novità. A Roberto non viene più chiesto, come in passato, di esibire la carta d’imbarco e il documento. Questa volta, gli viene soltanto scattata una foto e il riconoscimento avviene attraverso un sistema presente nel computer degli addetti ai lavori. Terminati i passaggi preliminari, Roberto sale sull’aereo. “I posti erano distanziati – prosegue –, soltanto i nuclei familiari sedevano vicini. In totale, sarà stato vuoto circa un terzo del velivolo”.
Dopo sette ore e mezza di viaggio, Roberto atterra a Londra Heathrow. Due ore di scalo per mangiare e bere qualcosa, poi ancora metal detector, così come negli Stati Uniti. Giunto al gate, però, viene fermato. “Mi hanno dato un foglio da compilare. Ho dovuto inserire i miei dati e comunicare dove avrei fatto la quarantena. Poi, l’ho immediatamente consegnato alle hostess della British Airways”. Dall’Inghilterra è diretto a Pisa e stavolta il volo è più popolato rispetto a quello preso a Chicago. Due ore e dieci di tratta, fino a quando il pilota non annuncio l’arrivo in Italia. Atterrato a Pisa, viene subito mandato al controllo passaporti. Passato quello, una rapida deviazione verso il rullo sul quale scorre la sua valigia. Poi, imbocca l’uscita.
Esce dall’aeroporto e si sente libero. Rivede dopo mesi i genitori, che lo sono venuti a prendere in macchina. Mentre si dirige verso casa, però, nota un dettaglio. “Nessuno, né a Londra né tantomeno in Italia, mi ha mai chiesto da dove venissi. Sarei potuto essere un cittadino proveniente da Pechino, Rio de Janeiro o New York e non avrebbe fatto alcuna differenza”. Ora Roberto si trova, da quasi una settimana, nella propria casa, dove trascorre la quarantena fiduciaria che, sottolinea, “è praticamente volontaria”. Non è infatti soggetto ad alcun controllo, non ha ricevuto nessuna telefonata e non è nemmeno stato contattato via mail, dopo aver lasciato tutti i recapiti nel foglio che ha dovuto compilare a Londra.
“Credo non ci sia nessuno incaricato di assicurarsi il rispetto delle regole per chi torna dall’estero. Secondo me – dice sorridendo – quel foglio lo hanno perso”. È questa l’esperienza diretta di chi, oggi, torna in Italia dagli Stati Uniti. Negli aeroporti i controlli sono tanti e, almeno a detto di Roberto, quasi sempre rispettati. Per quanto riguarda la quarantena, invece, vogliamo sperare che l’impressione del nostro intervistato sia soltanto, appunto, un’impressione. Se così non fosse, sarebbe grave, perché le persone potrebbero circolare liberamente nel nostro Paese senza aver prima concluso il necessario periodo di isolamento, però lasciamo il beneficio del dubbio.
Anche se, come diceva Andreotti, “a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si indovina”.