C’è un programma televisivo, di cui non dirò il nome perché non voglio fargli pubblicità, che ha per conduttore un ristoratore italiano che si propone, attraverso una specie di concorso, di assegnare il titolo di miglior ristorante italiano nel mondo fuori dall’Italia. Alcune delle puntate, ovviamente sono state registrate a New York e pare ce ne siano altre in cantiere. Tre concorrenti si sfidano presentando il loro ristorante italiano preferito nella città in cui vivono e insieme al conduttore vanno a mangiare nei tre posti commentando e giudicando i vari piatti.
La formula è simpatica, anche se non molto originale e potrebbe funzionare se non fosse per il tono paternalistico del presentatore che sembra il depositario del criterio fondamentale dell’autenticità o italianità dei piatti e degli ingredienti che li compongono. Si percepisce, di fondo, un complesso di superiorità da parte sua, sia nei confronti dei concorrenti che dei ristoratori perché tutto viene giudicato a paragone di un mitico parametro di italianità di cui lui solo sembra essere depositario.
Gli italoamericani, i loro adattamenti di piatti italiani e i loro gusti sono giudicati con sufficienza e altezzosità come impuri. Fin dalla prima puntata, una delle concorrenti viene presa in giro e umiliata perché ha l’ardire di ordinare del pollo al marsala. Un’eresia per il presentatore e gli altri concorrenti che tuonano “non è italiano!”. E pensare che a casa mia, a Bozzolo, le scaloppine di pollo al marsala sono sempre state uno dei piatti più gettonati. Ma questa mitica italianità, innalzata come un idolo al quale tutti gli altri criteri devono piegarsi, chi la definisce? Chi è appena arrivato dall’Italia ha più titoli per giudicare? Ma la cucina italiana non è straordinaria proprio perché è in realtà una costellazione di cucine regionali e cittadine che nei secoli si sono separate e poi fuse?
Ricordo una ventina di anni fa un litigio epico a Londra tra due amici mantovani che, a Hyde Park, si sono messi a discutere se i tortelli di zucca vadano mangiati solo con burro e salvia o col sugo di pomodoro e, addirittura, la pancetta o la salsiccia. La discussione è presto degenerata in un litigio così animato che le urla dei due hanno cominciato ad attirare l’attenzione dei passanti. Non si è giunti all’accordo e i due (uno di Bozzolo e uno di s. Martino, distanza 2 km) non si sono parlati per qualche giorno.
Perché vi ho raccontato questa storia? Perché credo che dimostri l’inutilità e anzi il pregiudizio razzista del programma TV. Non esiste un concetto di autenticità e di italianità unica in cucina. Chiedetelo agli studiosi seri come Fabio Parasecoli o Simone Cinotto che si occupano di questi temi e che si guardano bene dall’utilizzare queste categorie. Ciò che sembra autentico a Bozzolo, appare farlocco a S. Martino. E se non si trova l’accordo fra due borghi a qualche chilometro di distanza, come si pretende di avere un metro universale per giudicare la cucina italiana nelle varie declinazioni che ha assunto nel mondo, dove si è adattata ai prodotti disponibili, ai gusti del paese ospitante e ad altre dozzine di fattori che imporrebbero di capirla e studiarla e non di irriderla.
L’idea subdola che sembra far passare il programma è che gli italiani che emigrano, diventano in qualche misura, meno italiani, italiani di serie B a cui gli italiani-italiani devono costantemente insegnare cosa vuol dire esser italiani, cominciando con l’eliminare gli spaghetti con le polpettine. E io, apposta, me li mangio e me li godo perché altri emigrati italiani come me e prima di me hanno combinato l’elemento base della loro dieta con la carne che qui in America si trovava a prezzi accessibili. Paisà, non preoccupatevi: siamo italiani almeno quanto i fighetti che mangiano il branzino al sale.