Un altro paese. Un’altra lingua, un’altra storia, un crogiuolo di storie che si dipanano. E tu, in mezzo a tutto questo marasma, non sei che un puntino. Ti sei lasciato guidare dalla propaganda, ti sei lasciato guidare dal sogno americano, ti sei lasciato guidare…
Molti giovani pensano che emigrare, oggi, sia fare un’esperienza di media durata in un paese diverso dal proprio. Un’esperienza cool, un’esperienza di divertimento, magari abbinata ad uno dei molteplici programmi exchange, uno su tutti in Europa, quello Erasmus+.
Spostarsi in un nuovo paese è sostanzialmente fare le cose che facevi a casa con un livello di difficoltà molto, molto, più alto. Portare a casa le bottiglie dell’acqua a piedi, che prima trasportavi in macchina, cucinarti con mezzi di fortuna e lavarti i panni con una nuova lavatrice che devi imparare a conoscere, vincere il muro di gomma che gli scaffali dei supermarket ben rappresentano. Migliaia di prodotti diversi da quelli a cui sei abituato, tutti impegnati a cogliere la tua attenzione, nessuno a darti spiegazioni.
Se le emigrazioni, di cui l’Italia è stato uno dei maggiori interpreti nel dopoguerra, sono state mosse dal bisogno più vivo e vero, le emigrazioni che il paese affronta oggi sono spesso un miscuglio sia della partenza delle classi più povere e meno scolarizzate che di una borghesia medio-alta che non ha voluto o saputo lottare per avere il proprio spazio nella società. Oppure che ha semplicemente perso tale battaglia.
Ma questa scolarizzazione di alto livello, questa conoscenza linguistica appresa in scuole private, questa genesi culturale che li ha resi potenziali attori transnazionali vale l’integrazione?
Spesso costoro viaggiano per i continenti alla ricerca di una giustizia sociale che a casa non hanno trovato e la loro prospettiva diventa più quella dello scholar che del colonizzatore. Tutto diventa oggetto di studio e, dall’organizzazione più o meno feroce della burocrazia, alle abitudini sociali trovate in loco, si acquisisce una nuova competenza il cui vero valore aggiunto è la possibilità di guardare alla propria terra con occhi diversi.
Travelling broadens the mind, recita il detto. Ma dove porta questa nuova capacità di “vedere”? Va da sé, che al di là degli entusiastici proclami di un mondo “a portata di mano” dove sei attore principale della tua avventura, la capacità di osservazione va di pari passo con il confronto culturale con quelle che sono le pietre miliari del tuo sapere e del tuo “muoverti nella società”.
Mudarse. Dicono così gli spagnoli, ed è un termine meraviglioso perché parla di movimento, ma anche di cambiamento. Ha in sé la radice etimologica del mutamento. Forse che integrazione non sia semplicemente il trasformare se stessi in quello che il nuovo ambiente si aspetta da coloro che lo vivono?
Certo! Ma senza dimenticare le proprie origini… va da sé che questa piccola postilla fa cadere tutto il castello. Ed ecco che se la crisi economica avanza, l’irrigidimento politico e culturale va di pari passo. Si costruiscono muri, si applicano politiche protezionistiche, si chiude la porta di casa a doppia mandata.
Ma quale, dunque, il punto di arrivo di queste idee vaganti espresse finora? Mine nello status quo della propaganda mondiale, e sicuramente europea, degli ultimi anni?
Il punto d’arrivo sta nel fatto che questa nuova generazioni di nomadi, digitali o non che siano, potrebbe portare ad una nuova presa di coscienza circa il funzionamento delle proprie società. Ai fini di un’organizzazione nuova dei propri Stati d’origine. Solo il cambiamento interno potrebbe infatti portare ad un mondo veramente più aperto a cosmopoliti che oggi sono “avventurieri in cerca di un perché” e domani potrebbero essere coloro che gettano le basi per un’inclusione sociale e un’organizzazione globale capace, non di istituzionalizzare e controllare i flussi, quanto di garantire il diritto alla migrazione disinnescando le tensioni sociali che l’attuale gestione, di quello che è visto e affrontato come un problema, non fa altro che favorire.