Un paio di guantoni, grinta da vendere, capacità di sopportazione al dolore illimitata ma anche un senso di disciplina rigido e sangue freddo. Una vita da kickboxer quella di Andrea Galbiati, cinquantenne monzese, due volte campione del mondo, un titolo europeo e quattro titoli italiani, oggi allenatore a New York di fama internazionale negli sport da combattimento.
Tutto inizia dal tatami del Judo Club di Monza. Allora Andrea aveva quattro anni e si comincia ad appassionare di judo. A quindici anni rimane folgorato dalla kickboxing e inizia a fare sul serio alternando lo sport alla scuola. Dopo il liceo scientifico, il servizio militare nel genio degli alpini, Andrea lavora anche come guardia giurata.
Sulla scia di un certo sogno americano, nutrito di icone cinematografiche, da Rocky Balboa a Mike Tyson, l’America non è più lontana. Nel 2007 arriva a New York come allenatore nella leggendaria palestra Gleason’s Gym di Brooklyn che ha sfornato campioni del calibro di Jake La Motta, Mike Tyson e Muhammad Ali.
Da qualche anno ha aperto una palestra a casa sua dove continua ad insegnare pugilato, kickboxing e MMA senza rinuciare a girare il mondo. Non solo per accompagnare i suoi atleti ma anche per apprendere nuove tecniche di allenamento. Allenatore ufficiale della squadra nazionale degli Stati federati di Micronesia, insieme all’ head coach Eric Divinagracia, oggi si prepara al suo prossimo viaggio per un match che per la sua allieva rappresenta la possibilità di arrivare alle qualificazioni di Tokyo 2020.
Di questo sport ama la foga agonistica, quel minuto di adrenalina che accompagna il passaggio dallo spogliatoio all’ingresso nel ring. “Questo sport è duro ed è fatto di disciplina, tecnica, passione, sacrifici, colpi e dolori ma quel minuto di gloria, con la folla che ti osanna, è meglio di 20 anni dietro una scrivania”.
Ha messo ko molti suoi colleghi, della sua ultima vittoria, prima del suo addio alla carriera, ricorda la dedica a suo padre che lo seguiva da lassù. “The Wood”, così lo chiamano per via dei suoi colpi duri come il legno, qualche anno fa ha ottenuto la cittadinanza americana per meriti sportivi e oggi ci racconta la sua vita di atleta e allenatore a Brooklyn e di come questo sport sia capace di salvare molti ragazzi dalla strada e di, a differenza di quanto si pensi, calmare l’aggressività trasformandola in grande prestazione fisica e autocontrollo.
Andrea, la tua carriera di atleta nella kickboxing e negli sport da combattimento inizia in Italia dove hai ottenuto quattro titoli e dove hai raggiunto grandi risultati. Poi però hai deciso di ricominciare la tua nuova vita da allenatore negli Stati Uniti
“L’America non è solo un sogno per chi ama questi sport. È anche una realtà concreta. Non solo è forte, nell’immaginario collettivo, la potenza narrativa che accompagna la boxe o la kickboxing – se pensiamo a tutta una certa letteratura cinematografica –, ma esistono delle concrete possibilità di guadagno e di fare carriera sia come atleta che come allenatore”.
Tu hai cominciato a lavorare, come allenatore, nella mitica palestra sul lungomare di Brooklyn, la Gleason’s Gym, da dove sono usciti fuori ben 130 campioni, da Jake La Motta a Mike Tyson e pure alla Class One MMA, una delle più famose palestre di arti da combattimento. Come è stato per te, da uomo bianco ed europeo, inserirsi in un contesto dominato da neri americani?
“Non facile. All’inizio la diffidenza è normale, la gelosia esiste, fa parte di situazioni come queste. Quello che occorre, in questi casi, è essere umili, non cercare di interferire con il lavoro degli altri, non fare il gradasso. Io sono sempre stato educato e rispettoso fino a guadagnarmi la fiducia del primo pugile che mi ha chiesto di allenarlo”.
Gli sport da combattimento sono associati non solo alla intensità, spesso violenta, della prestazione fisica ma anche alle controverse storie personali di alcuni campioni, se pensiamo a Mike Tyson ma anche ad altri che sono diventati delle icone.
“Chi sceglie questo sport ha una personalità molto forte, oltre che una fisicità rilevante. Il fatto che alcuni pugili siano diventati famosi per la loro vita privata e controversa fa parte della narrazione del mito, unita ad una certa cronaca giornalistica. E’ vero che molti che scelgono questo sport vengono da situazioni difficili, a volte estreme, legate alla violenza e alla povertà ma non è sempre così. Molti dei miei allievi si avvicinano agli sport da combattimento perché vogliono riscattarsi da una difficile situazione economica e personale sapendo che con questo lavoro le possibilità di guadagno ci sono e allenarsi non costa tanto, soprattutto all’inizio. Altri invece lo fanno per un discorso non economico o sociale ma perchè amano queste discipline. Quello che voglio dire è che esiste uno stereotipo associato a questi sport ma la realtà è anche diversa. I pugili non sono necessariamente tutti ex pregiudicati, ci sono anche liberi professionisti. Certo, entrare in una palestra di kickboxing o boxe non è lo stesso che entrare in una scuola di scherma ma questo sport ha salvato la vita a molti ragazzi che con niente in tasca, un paio di guantoni da 20 dollari, hanno costruito una carriera e si sono tirati fuori dalla strada. Chi pratica questo sport a livelli non alti, può vincere contando sull’aggressività piuttosto che sulla tecnica ma a certi livelli alti, l’aggressività non basta ed occorre una grande preparazione tecnica”.
Cosa ti ha insegnato la kickboxing e cosa insegni ai tuoi atleti?
“Uno degli errori in cui si cade facilmente è credere che questi sport ti fanno diventare più aggressivo. Al contrario. L’aggressività si trasforma in tecnica, forza e prestazione fisica ma qui è importante che ci sia un buon maestro che ti insegni ad incanalare questa aggressività in qualcosa di altamente sportivo e prestante. Grazie alla kickboxing e alle arti marziali, ho placato la mia aggressività che avevo quando ero bambino. Chi sceglie il pugilato o la kickboxing, sa che deve fare fronte a una preparazione atletica tra le più intense e faticose. L’atleta che ne viene fuori, se affiancato da un buon maestro, è una persona lucidissima, che ha sangue freddo e con un senso di disciplina molto alto e mai aggressivo fuori dal ring”.
Tu hai iniziato a quattro anni a praticare judo. Cosa ti ha portato a salire sul ring e cosa ti affascina di questi sport?
“Ho avuto sempre una grande passione per gli sport da combattimento. A quindici anni ho iniziato con la kickboxing a livelli già professionali e a 39 anni ho alzato il mio ultimo trofeo. Da allora, mi sono dedicato a tempo pieno all’allenamento. Mi affascina la brama di vincere, l’adrenalina pura del momento prima di salire sul ring: quando attraversi il corridoio che dallo spogliatoio ti porta al ring con una folla di ventimila persone che ti incita. Vale la pena vivere quel solo minuto che venti anni dietro la scrivania. È uno sport duro ma vero, leale. Questa emozione non cambia neanche ora che sono allenatore. Il mio obiettivo è far provare quella bellissima sensazione ai miei allievi”.
Chi sono le donne che scelgono di combattere sul ring?
“Non c’è differenza di genere nella passione e nello sforzo fisico. Tutti devono avere una grande motivazione e preparazione al sacrificio perchè questo è uno sport che richiede un allenamento durissimo, grande senso di disciplina, molti sacrifici e dolori fisici non indifferenti. Sono molte le donne che hanno una grande capacità fisica, un temperamento molto maschile, se vuoi.
A livello tecnico, sono forse indietro rispetto agli uomini ma a livello fisico è lo stesso che allenare un uomo. Sia le donne che gli uomini possono sopportare allo stesso modo lo sforzo fisico. Se una donna ha la possibilità di essere allenata di più a livello tecnico, potrebbe arrivare più velocemente al titolo di campionessa. Anche a diciotto anni. Per gli uomini i tempi si allungano e c’è più competizione. Nella cronaca sportiva, in questo momento, il nome più importante è quello della colombiana, residente in Norvegia, Cecilia Braekhus.
Anche la mia allieva, la campionessa di boxe Jennifer Chieng, sta ottenendo degli ottimi risultati e ora spero di portarla a Tokyo 2020. Con lei ho vinto anche al Golden Glove, una prestigiosa competizione che si svolge sin dal 1928 negli Stati Uniti. Una vittoria di cui vado orgoglioso perchè sono stato l’unico italiano allenatore ad arrivare a questo risultato con la mia allieva”.
Il pugilato, la kickboxing, che impatto hanno sul pubblico americano rispetto a quello europeo?
“In America amano e vogliono vedere lo spettacolo. Se in un combattimento emerge solo la tecnica, il pubblico comincia a fischiare. Vogliono vedere sul ring il sangue, il campione messo ko, quella foga agonostica. A livello tecnico, ci sono delle differenze tra la tecnica di combattimento e allenamento americana, europea, cubana ma non sostanziali perchè dipende dal singolo individuo, dalle sue prestazioni fisiche, le sue potenzialità. Continuo a girare il mondo per apprendere nuove tecniche che adatto secondo le capacitá e le caratteristiche individuali delle persone che alleno”.
Il business legato a questi sport come si muove e fino a che livelli può arrivare?
“A differenza di quanto si possa pensare, gli sportivi più ricchi non sono i calciatori ma i pugili. Se sei un campione puoi arrivare a guadagnare 30 o 50 milioni ad incontro negli Stati Uniti. Sono le televisioni che pagano altissime cifre per trasmettere gli incontri. A qualsiasi livello, da quello amatoriale a quello professionale, le possibilità di guadagno ci sono. A questo si aggiungono gli sponsor e le pubblicità. In italia è diverso perchè c’è una distinzione tra livello amatoriale e quello professionale. I professionisti nei giochi da combattimento appartengono di solito alle forze armate e il loro obiettivo è quello delle Olimpiadi. Le risorse destinate ai professionisti sono inferiori rispetto a quelle nel settore amatoriale ma la differenza rispetto all’America sta negli sponsor, meno in Italia, e nel budget delle televisioni, anche questo inferiore rispetto agli Stati Uniti”.
Quali sono le tue prossime sfide?
“Non potendo purtroppo fare più fare l’atleta a cinquant’anni, sono ormai allenatore a tempo pieno. Oggi sto seguendo molti allievi sia nella categoria professionisti che amatori. Lo scorso anno, al Madison Square Garden, il mio allievo John Pina ha trionfato alla Triumph kombat Muaythai full rules mentre da allenatore degli Stati federati di Micronesia sto seguendo la squadra nazionale di puglilato e presto partirò per Samoa dove porto la squadra a gareggiare per partecipare alle qualificazioni di Tokyo 2020. La mia allieva, la campionessa di boxe Jennifer Chieng, atleta degli Stati federati di Micronesia (Oceania) trapiantata a New York ha coronato il suo sogno partecipando a Rio 2016 e ora speriamo di portarla anche a Tokyo”.
Quali sono i campioni, i tuoi idoli, che ti hanno ispirato?
“I grandi pugili. Le leggende per me sono Julio Cesar Chavez, Giovanni Parisi e Marvin Hagler. Grande tecnica, stile e grinta”.
Il match più atteso oggi?
“Quello di cui si parla tanto e che dovrebbe accadere prima o poi. È già entrato a pieno titolo nella leggenda perchè si continua a posticipare. Si tratta del duello più atteso: quello tra l’americano Deontay Wilder e l’inglese Anthony Joshua”.
Cosa ricordi della tua ultima volta sul ring e cosa si prova quando ti mettono KO?
“Ho fatto molti ko nella mia carriera, ma fortunatamente non ne ho mai subito uno. Del mio ultimo match da professionista a 39 anni, mi ricordo la dedica della vittoria a mio padre che mi seguiva sicuro dal paradiso”.
Nella vita quotidiana quanto ti è servito essere un kickboxeur?
“Premesso che, così come mi è stato insegnato, io insegno ai miei allievi di lasciare questo sport dentro la palestra o il ring da combattimento. Dico sempre di non portarsi mai dietro il pugilato nei rapporti interpersonali e nelle situazioni che possono nascere per strada se non per legittima difesa. Questo è uno sport pericoloso se non si fa con la testa. Il vero maestro non insegna mai a picchiare fuori dalla palestra se non per legittima difesa.
Mi sono trovato in diversi casi dove, grazie alle mie abilità sportive, al mio sangue freddo, ho affrontato con molta lucidità situazioni nelle quali era in pericolo la vita altrui. Paradossalmente, in Italia oggi mi conoscono di più per l’episodio di cronaca a Cologno Monzese, dove nel 2017 ho soccorso una signora anziana vittima di uno scippo insieme al nipote. Con sangue freddo, ho fermato il ladro in fuga e praticando delle leve articolari per bloccargli collo e polsi, sono riuscito ad immobilizzarlo. Tutto questo mi è stato possibile grazie a quanto ho appreso da questi sport sia a livello fisico che mentale”.
Perchè sei conosciuto come The Wood?
“Perchè i miei colpi sono duri come il legno”.