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Katia Passerini: un’italiana nelle vette della carriera universitaria in America

La Dean del College of Professional Studies della St. John's University ci parla delle differenze del sistema accademico USA rispetto all'Italia

Liliana RosanobyLiliana Rosano
Katia Passerini: un’italiana nelle vette della carriera universitaria in America

Katia Passerini, PhD, Dean The College of Professional Studies, St. John's University, New York.

Time: 9 mins read

Negli Stati Uniti  non pensava di rimanerci  ma è proprio oltreoceano che Katia Passerini ha costruito la sua carriera professionale, partendo da una tesi di laurea.

Romana, Katia è la preside del College di Studi Professionali nella rinomata St. John’s University di New York.

Un traguardo costruito con una serie di opportunità che l’hanno portata fino ai vertici dell’istituzione accademica del Queens dove si laureò anche il governatore Mario Cuomo.

Laurea in Scienze politiche alla Luiss di Roma, MBA  e PhD a The George Washington University, Katia in questa intervista ci racconta le differenze tra il sistema accademico americano e quello italiano e di cosa sia cambiato per un europeo che viene a studiare negli Stati Uniti oggi rispetto a quando arrivò lei da giovane studentessa negli anni Novanta.

“In Italia, sicuramente sarebbe stato difficile bruciare le tappe e raggiungere alcuni obiettivi che ho raggiunto qui… Sicuramente è più difficile perché ci sono più difficoltà legate al visto di ingresso e a quello di  lavoro, una volta completati gli studi. Non per questo però bisogna scoraggiarsi o rinunciare”.

Da tre anni sei preside del College of Professional Studies alla St. John’s University di New York mentre prima hai ricoperto la stessa carica al New Jersey Institute of Technology, uno degli Honor College. Sono traguardi inimmaginabili per una professionista non ancora cinquantenne italiana nel Belpaese. Il tuo percorso inizia però da Roma, la tua città.

“Dopo la laurea in Scienze Politiche alla Luiss di Roma, non pensavo di trasferirmi negli Stati Uniti e la mia carriera è il risultato di una serie di avvenimenti legati tra di loro. Il mio ponte con l’America inizia con la mia tesi di laurea dove ho discusso le differenze tra il sistema sanitario italiano e quello americano. Una volta arrivata negli Stati Uniti, erano gli anni novanta, ho sentito parlare di MBA e ho deciso di proseguire in quella direzione e ho ottenuto una borsa Fullbright. Dopo il Master in Business Administration sono rimasta per il dottorato. Ogni volta che concludevo un percorso se ne apriva un altro con nuove opportunità.

La carriera accademica negli Stati Uniti segue una serie di procedure completamente diverse rispetto all’Italia dove il sistema è centralizzato e si basa sui concorsi nazionali, mentre qui si scelgono i candidati sulla base del curriculum vitae. In Italia, sicuramente sarebbe stato difficile bruciare le tappe e raggiungere alcuni obiettivi che ho raggiunto qui, non solo per  le diverse modalità di accesso alla carriera universitaria ma soprattutto perché, lasciando  l’Italia, sono entrata nel sistema americano.

In Italia è importante, sin dall’inizio, fare parte del gruppo   e seguire con costanza il docente di riferimento della propria area di specializzazione”.

Una immagine del campus della St. John’s University, nel Queens (Foto da www.stjohns.edu)

Le differenze tra sistema italiano e americano riguardano sia la didattica che la ricerca. In che cosa i due paesi sono lontani nella vita accademica?

“Partiamo dalla didattica. Quella italiana, soprattutto prima della riforma avviata dal Processo di Bologna nel 1999,  si basa su una metodologia molto formativa, più teorica  e meno pratica sicuramente. La difficoltà del sistema italiano sta nel trasferire l’importante mole di sapere in uno sbocco pratico e professionale.

Ad esempio, come insegnante di project management  al St. John’s University, io alterno le ore di lezione orale a quelle di laboratorio, con esperienza pratica che ti immette subito in una percezione immediata di quello che incontrerai nella tua vita professionale. A livello di accesso dei fondi di ricerca, parliamo di due sistemi diversi.

Negli Stati Uniti, gli studenti sono messi nelle condizioni di accedere a fondi pubblici e privati per poter finanziare i propri progetti di ricerca. Ci sono quindi delle differenze strutturali significative. Oltreoceano, abbiamo una serie di strutture e servizi che accompagnano lo studente, lo guidano, sia nel percorso didattico che in quello post laurea, che sia di ricerca di fondi o di un posto di lavoro.  Ci sono indubbiamente più soldi a disposizione nelle università americane, soprattutto provenienti da privati anche se oggi con l’Unione europea, gli studenti italiani hanno la possibilità di accedere a fondi di ricerca per finanziare i propri progetti, più che in passato.

I punti di forza del sistema italiano ci sono e stanno nella ottima preparazione offerta agli studenti, la debolezza sta nel non sempre facile accesso e connessione con il percorso professionale e quindi con il mondo del lavoro sia a livello di contatti sia a livello di competenze pratiche”.

Negli Stati Uniti il costo delle rette per studiare al college aumenta sempre di più creando un divario tra chi non può permettersi una buona istruzione e chi invece ha accesso a strutture costosissime che poi ti aiutano nel processo di inserimento nel mercato del lavoro. La questione è entrata a pieno titolo nel dibattito politico e molti dei candidati alle presidenziali parlano di accesso gratuito all’istruzione. Riusciranno gli Stati Uniti a convertire l’istruzione pubblica sul modello di alcune strutture europee? 

“L’accesso all’istruzione deve essere garantito a tutti come diritto e per me questo è un principio importante.  La questione però è più complessa di quella che sembra. In Italia, garantiamo un accesso pubblico ma la percentuale di chi si laurea è inferiore rispetto agli iscritti perché non seguiamo gli studenti nel loro percorso didattico, formativo e di transizione nel mondo del lavoro. E’ vero che i costi di un college americano sono altissimi, che gli studenti lavorano per pagare il mutuo dei propri studi, è anche vero però che offriamo loro una serie di servizi: dalla palestra, il teatro, agli uffici di counseling e orientamento che li aiutano a compilare un curriculum, agli esperti che svolgono un lavoro di consulenza per individuare dei fondi di ricerca, agli uffici che  supportano gli studenti nella fase post laurea per inserirsi nel mondo del lavoro. Per non parlare di tutta una serie di strutture, attrezzature messe a disposizione degli studenti. In Italia, non ci sono questi servizi e gli studenti sono lasciati un po’ in balia del proprio destino. Ripeto, il diritto all’istruzione per me deve essere universale ma arrivare gratis alla laurea spesso significa partire con condizioni di svantaggio e non raggiungere il successo. I costi sono alti in America perché i servizi sono tantissimi e di alto livello. Studiare qui è un investimento per un posto di lavoro futuro, da noi, in Italia, studiare è prima di tutto conoscere e apprendere.   Bisogna anche dire che in America sono molte le borse di studio a favore degli studenti. Nella nostra università, destiniamo 250 milioni ogni anno in borse di studio, un buon 60% dei nostri studenti riceve un aiuto finanziario. E non dimentichiamoci che nello stato di New York, il governatore Andrew Cuomo ha lanciato qualche anno fa il “Piano di Excelsior” che consente a chi dichiara un reddito fino a 125 mila dollari l’istruzione gratuita in alcune istituzioni pubbliche, come SUNY e CUNY.

Studiare negli Stati Uniti in un sistema privato significa anche sacrificarsi ed impegnarsi per laurearsi in corso ed evitare ulteriori spese”.

Il College in Studi Professionali di cui tu sei preside, rappresenta un percorso che prepara gli studenti all’accesso nel mondo del lavoro con percentuali alte di impiego dopo la laurea. Potresti darci un quadro dei corsi di laurea impartiti e degli studenti.

“L’università St John’s è un’istituzione privata, fondata nel 1870 dalla comunità vincenziana. E’ una scuola cattolica con sedi  nell’area di New York: dal Queens, Staten Island, Manhattan, Hauppauge, mentre i campus all’estero sono a Roma, Parigi e Limerick.

Abbiamo all’attivo oltre cento programmi di studio in Scienze mediche, Economia, Arte, Scienze matematiche ed ingegneristiche, sia a livello di lauree triennali che di Master e PhD.

Le nostre punte di eccellenza sono la School of Law (Facoltà di Legge) e il programma in Farmacia. Il College di cui io sono preside offre corsi di laurea in giornalismo, comunicazione, scienze informatiche, insieme ai nuovi corsi, che stanno riscuotendo un certo successo, in cybersecurity e homeland security.

Il punto di forza del mio college sta in questa connessione con il mondo del lavoro.

Oggi, il 70 per cento dei nostri studenti viene dall’area di NY mentre il restante 30 per cento dal resto degli Stati Uniti, Europa, Asia, Africa. Grazie alle connessioni con il mondo professionale, ad una serie di servizi messi a disposizione dello studente durante la fase di inserimento professionale post laurea, il 74 per cento dei nostri laureati si inserisce velocemente e senza difficoltà nel mondo del lavoro. (94 percento se si include il 20 percento di ammissione ai masters). 

Come altre istituzioni universitarie americane, offriamo ai nostri studenti e dottorati la possibilità di lavorare durante il proprio corso di studi”.

Rispetto a quando sei arrivata tu, nel 1993, oggi è più difficile entrare da studente e rimanere a lavorare negli Stati Uniti? A chi vuole affrontare un percorso didattico e un eventuale inserimento nel mondo del lavoro negli Stati Uniti, cosa consigli?

“Sicuramente è più difficile perché ci sono più difficoltà legate al visto di ingresso e a quello di lavoro, una volta completati gli studi. Non per questo però bisogna scoraggiarsi o rinunciare. Chi sceglie un percorso di studi legato alle cosiddette discipline STEM (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica), ha una buona e alta possibilità di rimanere negli Stati Uniti dopo gli studi e trovare una collocazione professionale, perché questo paese ha sempre più bisogno di tecnici, ingegneri. Le difficoltà legate al visto ci sono ma una soluzione si trova sempre”.

Katia Passerini prima di un intervento alle Nazioni Unite

La tua carriera negli Stati Uniti rientra più nel percorso dei cervelli in fuga o nei cervelli in viaggio?

“Sicuramente mi sento un cervello in viaggio perché, come dicevo prima, non mi sono mai sentita in fuga dall’Italia e ho scelto di venire negli Stati Uniti per un percorso di studi ma non pensavo di rimanerci. Poi mi si sono presentate delle occasioni, una dopo l’altra, e a quel punto era difficile tornare”.

Torneresti a quali condizioni?

“Le condizioni professionali nelle quali opero è difficile trovarle in Italia in questo  momento. Parliamo di tutta una serie di metodologie, strutture, servizi, fondi che mi consentono di svolgere il lavoro ottenendo grandi risultati e permettendo di offrire agli studenti un percorso di eccellenza didattica e professionale.

Certo, mi manca l’Italia e il suo stile di vita. Non posso negare che la qualità della vita è migliore in Italia. Mi manca tutta l’offerta culturale come parte della quotidianità. Alla fine qui a New York, anche se ci sono numerosi eventi, non si trova mai il tempo libero. Non escludo però un ritorno. Ne parliamo spesso con mio marito, newyorchese, che ama l’Italia dove ha vissuto con me per alcuni anni.

Intanto, il ponte culturale e professionale con l’Italia va sempre coltivato. Proprio questa estate sarò all’Università Roma 3 per studiare insieme ai miei colleghi la diaspora italiana”.

E che lettura dai oggi, che vivi in questo paese,  alla tua tesi di laurea sul confronto tra sanità americana e italiana, diventata oggetto di campagna elettorale.

“Venendo dagli studi di scienze politiche, all’inizio, ero molto resistente a certe idee di questo paese che contrastavano con quelle di bene comune, diritti universali di cui ci si nutre in certi percorsi di studio. Resto solida all’idea che il diritto alla salute è inalienabile ed universale e che non può essere trattato come questione economica.

Vivendo nel sistema americano, devo dire che l’eccellenza nella sanità è limitata a chi fa parte di questo sistema e ha la possibilità di accedere alle sue strutture e ai suoi servizi. Questo significa che solo chi ha un datore di lavoro che copre la tua assicurazione medica o chi può coprire i costi a proprie spese, ha accesso a cure di un certo livello.

Vedo il sistema sanitario americano come eccellente se penso alla ricerca, tecnologia, attrezzature, servizi, ma a livello di accesso alle cure si fonda su una grande inequità e diseguaglianza. La riforma sanitaria, iniziata negli anni novanta con Clinton di cui ho parlato nella mia tesi, e che allora non è andata a buon fine, è un tema molto difficile in questo paese. L’Affordable Act Care ha cambiato alcune cose, come ad esempio ha rimosso le condizioni retroattive ma resta tanto da fare. Percepisco che almeno, a livello a livello delle coscienze,  gli americani cominciano ad incamerare il concetto di assistenza sanitaria gratuita, mentre prima  tutto questo era inconcepibile”.

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Liliana Rosano

Liliana Rosano

Sono nata a Catania, dove sono sempre tornata dalle mie peregrinazioni che mi hanno portato prima in Grecia, poi a Parigi. Con la mia laurea in Scienze Politiche, sognavo di lavorare nella cooperazione internazionale, ma sono finita a fare la giornalista, prima nella redazione di Telecolor poi del Quotidiano di Sicilia. ll mio ponte con l’America è iniziato grazie a un tirocinio per le Nazioni Unite a New York. Sono una freelance e collaboro con diverse testate e magazine nazionali. Vivo a Fairfield, nelle praterie sperdute dell’Iowa, in una comunità alternativa ed eco friendly e sono sempre alla ricerca di storie di italiani all’estero da raccontare.

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