Si è tenuto dal 6 al 12 maggio il Festival di letteratura PEN World Voices New York 2019, con oltre settanta eventi distribuiti in tutta la città.
Il Festival di letteratura più grande degli Stati Uniti, fondato da Salman Rushdie quindici anni fa, ha visto quest’anno la partecipazione di oltre 200 scrittori provenienti da più di 50 paesi, alcuni nomi: Marlon James, Jennifer Egan, Masha Gessen, Tara Westover, il nostro italiano Domenico Starnone e tanti altri.
Il PenFest non è un evento dedicato soltanto alla scrittura ma anche e soprattutto ai diritti umani; l’associazione responsabile è infatti PEN America, la no profit che si batte per difendere le libertà di espressione in USA e nel resto del mondo e i suoi membri sono oltre 7000 tra scrittori, giornalisti, editori, poeti, saggisti e traduttori. (Alberto Moravia era stato presidente di Pen International dal 59 al 62).
Il titolo del PEN Festival di quest’anno è stato “Open Secrets” e il suo obiettivo, a detta del direttore Chip Rolley, era quello di “creare una connessione tra quello che leggiamo e le storie dei giornali, i temi di cui parliamo a cena con i nostri amici, quello che sfogliamo quando siamo in metro o quello che scriviamo su Twitter”.
Tra le innumerevoli presentazioni, interviste e tavole rotonde, la NYU Maison Francais nel Greenwich Village, ha ospitato un interessante dibattito dal titolo “Terrible Truths” “Verità terribili” con un gruppo di professori e scrittori del calibro di Daniel Blaufuks, Catherine Filloux, Tanisha Ford, e Domenico Starnone.
Il tema del dibattito, la differenza tra la storia ‘propaganda’ di uno stato e quello che invece la popolazione vive aveva connotazioni forti, si parla di olocausto, di fascismo e di razzismo.
Daniel Blaufuks, fotografo e scrittore ebreo-portoghese ha aperto con la lettura di un suo pezzo sull’importanza degli ‘archivi’, visti molto più che luoghi fisici o come un insieme di documenti. “Noi nasciamo in un archivio, è il mondo che esiste già quando veniamo al mondo. Una città è un archivio, una lingua lo è. Una casa è un archivio, ogni foto e film diventa un archivio con il passare del tempo. Ogni persona contiene un archivio”.
Mentre la scrittrice Catherine Filloux ha letto e parlato del copione del suo spettacolo “Selma ‘65” dove la protagonista è Viola Liuzzo, l’attivista del movimento dei diritti civili che fu uccisa dal Ku Klux Klan poco dopo la marcia su Selma, Tanisha Ford ci parla del razzismo sotto un’altra luce, lei racconta storie di droga che sono nuovi alla letteratura, come l’abuso di crack negli anni 80.
Quando Domenico Starnone prende la parola mette al corrente il pubblico del dibattito in Italia sull’importanza della storia, come materia di studio, nelle scuole. “La Storia è un bene comune”, dice Starnone, è un bene che va difeso. Siamo a pochi giorni dalle notizie del Festival del Libro di Torino e dalla decisione di non dare uno stand alla Casa editrice Altaforte così vicina alla destra estrema.
“Il tema del fascismo è centrale nella storia italiana – dice Starnone – ed è purtroppo una responsabilità che non ci siamo mai presi”. E prosegue: “L’Italia non ha mai fatto i conti con il fascismo eppure il mio paese non ha solo avuto un governo fascista, ma lo ha inventato”.
Come si ci libera dalla ‘propaganda’? Chiedono dal pubblico e Starnone: “le verità terribili devono essere raccontate come terribili, e non devono mai smettere di essere terribili. Se la loro dimensione si addolcisce, anche noi scrittori abbiamo perso. Chi si è macchiato di quelle cose non può essere perdonato, in nessun paese. Io ho scritto per il teatro, ma se potessi tornare indietro forse non lo rifarei, raggiungere le masse scrivendo storie per il teatro, ammorbidisce i toni. Ma i crimini del fascismo non possono essere attutiti, perché sono orribili e devono solo essere raccontati come tali”.
Anche i temi dell’immigrazione sono stati affrontati negli eventi del festival ed in particolare al Nuoyorican Cafe che sabato ha ospitato l’evento “Dreaming Out Loud”: una serata di storytelling dove a raccontare e a leggere le loro storie erano i figli americani di immigrati irregolari.

All’Apollo Theatre Arundhati Roy ha tenuto il discorso finale a chiusura del festival, la lecture dedicata ad Arthur Miller (membro PEN quando era in vita) che si chiama “Libertà di scrivere”.
Arundhati Roy, l’autore del best seller Il dio delle piccole cose non è solo scrittrice di romanzi ma anche di saggistica e di articoli di forte denuncia della povertà e della disparità sociale in India. E’ infatti riconosciuta come scrittrice-attivista, o nelle sue parole è “in cima alla lista degli anti-nazionalisti”.
Arundhati parla con emozione delle elezioni in corso in India e usa parole forti contro il presidente Modi: “Se non voti per lui, sei considerato un Pakistano. Sono contenti i Pakistani di avere una popolazione in crescita?” Il pubblico scoppia in una risata. La critica tocca anche e soprattutto il governo attuale degli Stati Uniti e “il ruolo che ha avuto nella distruzione di Iraq, Siria e Libia”.
Il suo discorso è lungo e ripercorre la sua carriera tutta, la gloria e il successo degli anni del primo romanzo e poi le critiche e la diffamazione arrivata con i primi saggi in cui criticava il governo indiano.
“Nonostante i suprematisti bianchi alla Casa Bianca, i nuovi imperialisti in Cina e i nuovi nazisti in Europa, io credo che il compito dello scrittore sia quello di credere che un altro mondo sia possibile”.