A portarla nella Grande Mela è stata la passione per il giornalismo, oltre che la curiosità. Da dodici anni a New York, Angela Vitaliano, nata a Salerno ma cresciuta a Napoli, racconta agli italiani le storie a stelle e strisce. Lo ha fatto per Il Mattino, Il Fatto Quotidiano, Gioia, L’Espresso e oggi per Grazia. Laurea con lode all’istituto Universitario Orientale di Napoli, Angela è anche producer televisiva e in passato ha lavorato anche come PR e addetto stampa, e condotto diversi speciali per la Rai. Moda, la sua grande passione, politica, cultura, sono molte le storie di cui scrive.
Guarda l’America con gli occhi di chi è arrivata con una formazione tutta italiana, tanta curiosità e voglia di fare in una città – questa New York che ama alla follia ma che a volte detesta – che le regala grandi emozioni, anche se la fase di “innamoramento incondizionato”, dice lei, è passata. Meritocrazia, #metoo, le prossime presidenziali 2020 e la sinistra americana, l’America ai tempi di Trump sono tutti elementi oggetto dello sguardo curioso di Angela, insieme all’analisi dei fatti e le sensazioni vissute nella quotidianità. Ne viene fuori un attento spaccato della realtà americana, che siano i suoi articoli pubblicati o i suoi post sui social.
“A New York ho imparato a riflettere su cosa sia il razzismo”, dice Angela, “ho imparato a rispettare di piu gli altri e a pretendere maggior rispetto, ho imparato a esprimere i miei sentimenti e a non vergognarmi dei miei sogni”. Ma è Napoli che le ha “allargato lo sguardo e le ha insegnato a sopravvivere alla paura”. “È talmente dentro di me che quando mi manca la ritrovo immediatamente”.
Unstoppable Angie è il suo blog, dove ci racconta il suo sguardo sulle cose e in questa intervista, scopriamo cosa la affascina di New York e di questo lavoro e se sogna ancora di fare l’attrice.
Il tuo amore per New York, sembra incondizionato, da quello che scrivi, dici, da come la vivi. Cosa rappresenta per te questa città e quali sono i suoi difetti.
“Molti mi dicono che io sono “innamorata” e quindi non obiettiva, ma non è così. “L’innamoramento” sarà stata sicuramente una fase del mio rapporto con New York, ma non poteva certo durare 12 anni. Io di New York vedo i difetti e a volte la detesto: per i topi, gli scarafaggi, un ritmo senza riposo, troppa gente, troppe corse. E in più è una città estremamente costosa. Vedo tutto. Vedo la metropolitana in difficoltà con treni spesso in ritardo (a NY un treno ogni 7 minuti è “ritardo”), vedo l’aumento degli homeless e dei negozi che chiudono perche gli affitti sono troppo alti. Ripeto, vedo tutto. Io, però, non credo alle città o ai paesi perfetti. Credo alle città e ai paesi che diventano un vestito cucito addosso per la tua anima. New York mi ha ridato la gioia di vivere, mi ha insegnato ad aver fiducia in me, a girare ad ogni ora del giorno e della notte senza paura, a mettermi un paio di orecchini senza timore che mi vengano strappati dalle orecchie. Mi ha insegnato il senso dell’umanità, dell’appoggio, dell’essere in mezzo a milioni di persone che non conosci ma che se hai bisogno interrompono la loro corsa sfrenata e ti chiedono se hai bisogno di aiuto. A New York ho imparato a riflettere su cosa sia il razzismo (e ho smesso di dire “ma ero in buona fede”), ho imparato a rispettare di più gli altri e a pretendere maggior rispetto, ho imparato a esprimere i miei sentimenti e a non vergognarmi dei miei sogni. Mi sono sentita libera di essere Angela Vitaliano e di non dover essere parte di una “massa” ma me stessa. In piena libertà. New York è il mio abito di Giorgio Armani o di Dior creato apposta per me; è le mie Manolo; è il profumo Interdit di Givenchy (e quest’ultimo è l’unica cosa che uso anche nella realtà, ma il resto significa comunque ciò che per me rappresenta la bellezza)”.
Meritocrazia e sogno americano. Come si intrecciano questi elementi e quando il sogno si infrange con la realtà di un paese, gli Stati Uniti, che non fa sconti a nessuno?
“L’assenza di meritocrazia è ciò che più di tutto uccide il nostro paese. Prendi ad esempio lo scandalo di questi giorni delle “mazzette” pagate dai genitori ricchi per far accedere i loro figli ai college piu prestigiosi. “È la fine della meritocrazia” potrebbe tuonare qualcuno. È esattamente il contrario dico io. Il punto, infatti non è che gli americani siano dei santi e noi diavoli. Il punto è che però qui ci sono dei principi e c’è la volontà di farli rispettare. Quante persone ora si sentiranno di pagare “mazzette” dopo questo scandalo e dopo le conseguenze che esso porterà? Meno certamente. Da noi è un sistema che si muove sempre e solo per “conoscenza” o – appunto – mazzette, ma mai e poi mai qualcuno denuncia o qualcuno paga le conseguenze per i suoi gesti. E quindi si arriva a pensare che su 10, 8 sono raccomandati e 2 sono bravi. Qui è l’inverso, 8 sono bravi e 2 raccomandati. Noi ci autoassolviamo con questa idiozia che “tutto il mondo è paese”, ma non è cosi. Un sistema meritocratico è anche quello che ti consente di “sognare” e chiariamo che i sogni che valgono la pena sono quelli che fai da sveglio e per i quali ti rimbocchi le maniche per provare a realizzarli”.
In America il movimento #metoo ha portato un cambiamento rilevante mentre in Italia è stato marginale. Pensi sia una questione politica o culturale?
“Direi entrambe. La nostra è una societa’ estremamente misogina e patriarcale e il movimento #metoo non è mai decollato perché è stato contrastato a tutti i livelli (media, politica ecc.) e non ha trovato testimonial come in USA”.
C’è anche una questione di tolleranza e assuefazione a certi atteggiamenti sessisti e maschilisti.
“In Italia purtroppo viene tollerato quasi tutto. Il punto di vista è sempre quello maschile. Gli uomini sentono di essere in diritto di “spiegarti” che se ti guardano con insistenza o ti fanno un apprezzamento per strada “è un complimento”. L’idea che sia la donna a dover stabilire cosa è opportuno o no proprio non esiste. In USA il movimento #metoo ha cambiato ulteriormente la legislazione, l’atteggiamento, la mentalità. E le vittime hanno trovato una voce e dunque ascolto. Il fatto che da noi non ci siano state denunce viene presentato quasi come la conferma che non ci sono molestie e abusi sul lavoro (e non solo) e invece è la prova più inconfutabile di una società che non ascolta e non dà voce alle vittime che, di fatto, non denunciano”.
Come si traduce questa diversa visione culturale nei rapporti professionali?
“Per quanto sarebbe ipocrita dire che qui è tutto perfetto, le differenze sono abissali. Basta guardare quante donne ci sono nel mondo dell’informazione, della politica, della finanza ecc. Ma poi diciamolo, si parte dal curriculum: qui è vietato chiedere età, nazionalità, se si è sposati, e così via; da noi ultimamente sono state fatte selezioni per un nuovo giornale e veniva imposto un limite d’eta: per un giornale!”.
L’America si prepara alle presidenziali e l’Europa alle europee, forse l’Italia ad un nuovo governo. La sinistra di Bernie Sanders, di Elizabeth Warren e della Ocasio-Cortez rappresenta tre anime diverse. Su quali temi si gioca, secondo te, la partita dei democratici e quella dei prossimi candidati?
“Intanto, trovo pericolosa e assolutamente egocentrica la candidatura di Sanders. L’acredine dei suoi sostenitori nei confronti di Hillary è ancora ben viva nella mia mente. In più, per quanto possa dargli atto di aver favorito uno spostamento dell’asse politico dei democratici a sinistra, non lo ritengo il candidato migliore per diverse ragioni incluso il suo passato sostegno alla NRA, la sua misoginia (la sua campagna elettorale ha avuto tantissimi problemi in tal senso) e alcune sue affermazioni grottescamente razziste (infatti è il candidato con minor appoggio da parte dei neri). Al momento c’è una folla di candidati e si aspetta ancora la decisione di Joe Biden, ma è certo che tutti sono molto più a sinistra di quando Barack Obama scese in campo e parlare di assistenza sanitaria per tutti e veniva considerato come un estremismo socialista. Spero che i democratici trovino il candidato capace di portarli alla vittoria e mi piacerebbe che fosse una donna e fra le candidate al momento preferisco Kamala Harris. Una cosa è certa, Barack Obama è stato un grande presidente e ha fatto per questo paese tantissimo; ma non c’è un altro Obama e forse è giusto così, ma questi candidati sono tutti molto capaci e onorerebbero la presidenza”.
L’America dei diritti civili ha fatto grandi passi con Obama. Quali sono ancora gli obiettivi da conquistare e le carte che la sinistra dovrebbe giocarsi?
“Bisogna lavorare ancora moltissimo sul problema razziale e sull’integrazione – diciamo che New York dovrebbe essere sempre più “modello” in tal senso –. Tutto l’asse democratico si è spostato a sinistra ed è assolutamente necessario per bilanciare le politiche di estrema destra del presidente Trump. Spero che si possa avere una campagna elettorale intensa. ma non troppo lunga e che personaggi come Sanders dovrebbero comprendere che sarebbe opportuno fare un passo indietro”.
Trump è più l’anti-America o l’altra America?
“Trump è l’anti America più che l’altra America e sta provando a minare tutti i principi fondamentali che rappresentano la grandezza di questo paese. Tuttavia questo è anche il motivo per cui le forze migliori stanno venendo alla luce: donne, minoranze, giovani e questo paese ce la farà a restare in piedi”.
Cosa ti porti dentro della tua Napoli e come la ritrovi a New York?
“Napoli mi ha allargato lo sguardo e mi ha insegnato a sopravvivere alla paura. È talmente dentro di me che quando mi manca la ritrovo immediatamente. La lingua e le canzoni classiche e quelle di Pino Daniele sono il mio nodo insolubile. Ci sono cose che posso dire solo in napoletano e spesso, sebbene stonata, mi ritrovo a cantare le canzoni che sentivo da mia madre: Passione è una delle mie preferite”.
Quali sono invece i luoghi dove ritrovi te stessa a New York?
“Riverside Park, il luogo dove passeggio quasi ogni giorno per un po’. Dove vado a parlare con mia madre. È il mio colle dell’infinito leopardiano e ovviamente lo splendore primaverile dell’aiuole della fine del film C’e’ posta per te. E poi il Village, le sue stradine la sua storia le sue townhouse. Quel pezzo di Parigi a New York. Quando studiavo a Napoli mi rifugiavo, per concentrarmi, al Chiostro di Santa Chiara; a New York il mio rifugio è il Village e i suoi caffé. Ultimamente mi sto anche innamorando di TriBeCa perché è l’opposto: la grandezza. Più che un rifugio, è il luogo dove cammino guardando in alto e mi sento inebriata di vita”.
Cosa consiglieresti agli italiani che vogliono fare i giornalisti negli Stati Uniti?
“Di essere curiosi e pieni di energia e di non frequentare solo italiani”.
Com’è l’Italia oggi vista da New York?
“Gli americani amano e ameranno l’Italia in maniera sconsiderata “no matter what”. Per me è “Un bellissimo cadavere barocco”, per dirla con il titolo di un libro che ho molto amato”.
Torneresti in Italia solo se…
“Avessi vissuto abbastanza qui, a Parigi, a Londra, a Sydney”.
In passato hai fatto anche l’attrice e hai detto che rimane ancora un sogno.
“Senza alcun fondamento razionale sì: a volte mi vedo a fare i ringraziamenti a un grande pubblico e in mano ho sempre un Oscar mai un Pulitzer”.
Unstoppable Angie è il titolo del tuo blog. Cosa può fermare Angela?
“La depressione che in parte è anche ereditaria (papa, zia, nonno), ma con la quale ho fatto “amicizia” anche grazie al supporto fondamentale della psicoterapia (e sono grata al presidente Obama di aver inserito giustamente le malattie mentali tra quelle coperte dall’ACA). Quando la sento riaffacciarsi ora ho gli strumenti per ricordarle che farà si parte per sempre della mia vita, ma non la gestirà”.