La storia di Federica Belletti, marchigiana, sembra scritta da un bravo sceneggiatore. Il suo percorso rappresenta la voglia di fare e conquistare i sogni oltreoceano, nonostante gli impedimenti, le difficoltà che invece sono parti reali della sua esperienza. E ora Federica ha raggiunto una meta importante: essere produttrice di film.
Nel 2015, Federica è stata ammessa ad una delle prestigiose università di New York, la Columbia University, affrontando il primo ostacolo con intraprendenza e creatività per sostenere le alte tasse universitarie da pagare e i costi della città, rivolgendosi al mondo web per una raccolta crowfunding. In pochi mesi il traguardo di 80mila dollari è stato raggiunto permettendole di portare avanti e concludere con ottimi risultati il suo percorso di studi. Ne avevamo scritto qui. Nel 2017 ha vinto l’Arthur Krim Memorial Award, il Katharina Otto Bernstein Award e lo Sloan Treatment Award.
Nel 2017 ha anche sviluppato un lungo “La Balena più piccola del mondo” con il quale è stata finalista al prestigioso Sundance Producing Lab 2017, e lavorato in case di produzione come Maven Pictures (I ragazzi Stanno Bene, Still Alice), l’Austin Film Festival e Gamechanger Films (The Tale), un fondo che finanzia opere dirette esclusivamente da registe. Dopo aver prodotto diversi cortometraggi, è stata finalista della prestigiosa Marcie Bloom/Sony Fellowship, un programma di mentorship creato dalla fondatrice di Sony Picture Classics che sceglie 4 film makers in tutta la nazione. Ha anche lavorato come Produttore Associato alla realizzazione di un documentario su Nuvolari, prodotto da una casa americana e girato tra l’America Latina e l’Italia questa estate, e da poco è location manager di film indipendenti (uno dei capi dipartimento in produzione) per Big Mouth Productions, Animal Kingdom e per Tape, un film diretto da Deborah Kampmeier e prodotto da Veronica Nickel (co-produttrice dell’Oscar winning Moonlight) ispirato alla campagna #metoo e lo scandalo Weinstein.
Nel 2015 perché hai scelto quel corso alla Columbia ?
“Ho scelto il corso in Creative Producing alla Columbia perché era uno dei pochi al mondo che offriva una formazione in produzione dando anche accesso a discipline come sceneggiatura e regia; insomma, una esposizione a 360 gradi con la necessità poi di una specializzazione precisa.
Inoltre è una scuola di cinema indipendente, dove i temi e i generi non sono per forza hollywoodiani e ti spinge a lavorare contro gli stereotipi e a trovare la tua voce grazie anche al contatto con studenti da tutto il mondo, ognuno porta con se’ la sua cultura e il suo mondo all’interno di una classe di 10 persone.
Poi perché la scuola é conosciuta come the-story-school, dove la cosa più importante é avere una storia che funziona, con una struttura solida e impeccabile. Ti insegnano una formula che funziona e che, indipendentemente che tu sia produttore, sceneggiatore o regista, tutti sanno. Alla fine della giornata non importa girare sull’ultimo modello di telecamera, avere l’attrezzatura migliore o chissà quali budget! La cosa più difficile non è creare un’ inquadratura bella ma raccontare una storia che emoziona, e Columbia si concentra molto su questo.
Inoltre ci sono molti studenti e professori usciti dal mio stesso programma che ammiro, come Katherine Bigelow ( The Hurt Locker), Malia Scotch Marmo (Hook), Jack Lechner (Blue Valentine), Andy Bienen (Boys Don’t Cry), Simon Kinberg ( Mr. and Mrs. Smith), Albert Berger (Little Miss Sunshine), Shari Springer Berman and Robert Pulcini (American Splendor)”.
Per quanto riguarda la formazione che differenze ci sono con l’Italia?
“In Usa il corso metteva insieme formazione pratica (quello che in Italia offre l’accademia) e formazione universitaria. Volevo una laurea e volevo imparare un mestiere, cioè avere un titolo riconosciuto a livello globale accompagnato da una formazione tecnica di livello avanzato. Inoltre, ho sempre ammirato i film americani, non solo a livello di storie ma anche per la capacità di fare film in grado di imporsi ad un pubblico globale”.
Qual è la tua motivazione? Avevi già ben chiaro il tuo percorso?
“La motivazione? Nasce da due cose. Volevo imparare e avevo qualcosa da dire. Una voglia incontrollabile di esprimermi e il cinema é stato il linguaggio più affine, quello che con me funzionava. Il valore sociale del cinema é stato importante per me, come sapere che le immagini hanno la forza di cambiare le cose e di ispirare discussioni rendono le persone migliori.
E sembrerà una contraddizione ma no, non avevo chiaro il mio percorso. La Produzione era l’ambito più vicino alla mia personalità. Chi produce é “tutto arrosto e niente fumo”, the person that makes things happen. E io sono così, mi metto all’opera, senza troppi discorsi. Ovviamente poi, studiando, le idee si sono chiarite e tutto ha avuto senso. Ci sono state anche delle scoperte, per esempio, ho iniziato a scrivere. É una abilità importante perché, come produttore è più semplice capire ciò che é efficace in una sceneggiatura si rischia, non solo di fare flop ma rovinare le potenzialità di una determinata storia”.
Cosa significa quindi essere creative producer negli Stati Uniti? Che paragoni puoi fare con il mondo del cinema indipendente europeo?
“Il Produttore Creativo è la persona che si preoccupa della realizzazione del film dal momento della stesura fino alla proiezione in sala. Acquista i diritti e sviluppa la sceneggiatura con lo scrittore, gli fa “da pubblico” durante la scrittura, e lo aiuta a definire la storia prendendo in considerazione prospettive di produzione, distribuzione e mercato, mette insieme il team creativo, vale a dire scrittore, regista, cast (sembra banale, ma le collaborazioni sbagliate affondano la realizzazione di storie perfette sulla carta).
Ed è colui che mette insieme i finanziamenti per il film (che non vuol dire finanziarlo in prima persona).
La chiave sta nel “guardare alla creazione del film tenendo in considerazione la distribuzione”. Questa è la cosa più importante, perché il cinema non può essere autoreferenziale, ha bisogno di un pubblico per definirsi tale. Chi produce creativamente sviluppa storie che parlano ad un pubblico e, allo stesso tempo, si assicura che quel qualcuno abbia accesso al film”.
Tra tutti i tuoi progetti quale ti ha coinvolto maggiormente a livello emotivo ?
“Refuge è stato quello che mi ha coinvolto di più a livello emotivo. É stata un’esperienza umana forte, dove ho conosciuto persone meravigliose che hanno dato l’anima per questo film. Sia io che il regista Federico Spiazzi abbiamo continuamente messo in discussione cosa stavamo facendo e questo ci ha portato alla stesura di tre pellicole diverse nel corso di un anno, collaborando di continuo con i nostri amici siriani. Ci sono stati molti viaggi, mesi di pre-produzione e riscritture all’ultimo secondo. Siamo stati molto critici con noi stessi, cercando di non inventare nulla, e non assumere un punto di vista che non ci apparteneva.
É la storia di un avvicinamento tra persone di etnie diverse, che si ritrovano a condividere uno spazio a causa di un temporale. Dopo la diffidenza iniziale, il loro destino si intreccia abbattendo le barriere linguistiche, culturali (e politiche), creando una scintilla di speranza che magari l’Europa possa essere un luogo grande abbastanza per accogliere tutti. È stato difficile produrre un film di finzione, e allo stesso tempo avere un approccio documentaristico, con “persone vere” invece che attori…Ad un certo punto sul set si parlava italiano, inglese, greco, arabo e urdu! Comunicavamo a gesti, con gli occhi, i sorrisi, il tono della voce. C’è stata molta improvvisazione e anche pianti, fatica e molta emozione!”
I tuoi prossimi progetti ?
“Sto sviluppando due lungometraggi e scrivendo una serie tv.
Uno dei lunghi é stato scritto da Bane Fakih ed é ambientato in Libano durante la guerra civile degli anni ‘70. Racconta di May, una giovane donna che vuole liberare il suo quartiere dalla minaccia di un cecchino, mentre cerca di mandare avanti una relazione segreta con un’altra donna. May combatte al fianco del suo migliore amico, entrambi giovani che preferiscono vivere a rischio ma liberi, piuttosto che al sicuro ma sotto controllo.
Il secondo é stato scritto da Harriet Beaney ed é una storia d’amore che, con toni giocosi e un po’ dark, indaga il modo in cui il senso di colpa, il perdono, e le scuse funzionano nelle relazioni umane.
Il terzo progetto invece é una serie che sto scrivendo con Kenneth Sala e che si interroga su cosa vuol dire sentirsi a casa, e come si fa a ritrovare se stessi quando ci si perde.
Poi lavorerò per CounterNarrative films dove farò da assistente ad Anna Gerb e Neal Dodson. Mi hanno da poco, non vedo l’ora di imparare da dei grandi come loro!”