Sempre più spesso si legge e si parla di barman, bartender, mixology…il nuovo trend, accanto a quello della cucina, sembra essere il mondo variegato dei cocktail. Preparazione, tecnica, studio delle materie prime, insieme a creatività e molto impegno sono gli ingredienti da miscelare dietro al bancone, per creare una bevanda che soddisfi le esigenze del cliente.
Per farci svelare i segreti di questo universo in un bicchiere abbiamo intervistato Fabio Raffaelli, 38 anni, pavese, vanta varie collaborazioni con chef stellati, di cui ha diretto i bar sulle due sponde dell’Atlantico: a Londra con Gordon Gordon Ramsay, in Spagna con Ferran Adrià e Gerhard Schwaiger, a New York con Joe Bastianich e Daniel Boulud e ora North America Brand Ambassador per Martini & Rossi. Nella Grande Mela, dove è approdato nel 2009, ha lavorato come bar development director per il gruppo Apicii. Nel 2015 é stato selezionato dal sito TimeOut come uno dei migliori bar tender di tutta New York. Fabio ha ideato diverse creazioni o, come si chiamano in gergo, “signature cocktail”: miscelati da lui inventati utilizzando ingredienti e formule diverse a seconda del concetto e del luogo in cui si trova.

Ma cominciamo dall’inizio. Come è iniziata la sua avventura nel mondo della mixology?
“Nel 2001 nei fine settimana ho iniziato a lavorare come barman nelle discoteche della provincia pavese, dove sono nato. Poi iniziai a frequentare i corsi Aibes e a viaggiare in tutta Italia per seguire master e seminari per perfezionarmi. Nel 2004 mi sono trasferito a Londra, dove ho lavorato per Gordon Ramsay al Claridge’s Hotel. Qui ho conosciuto Salvatore Calabrese che mi ha offerto un impiego al Library Bar, un modello di classe e raffinatezza. È poi la volta di El Bulli con Ferran Adrià, poi con Gerhard Schwaiger a Palma de Mallorca. Nel 2009 sono andato a New York in vacanza e lì sono rimasto fino al 2016.
A spalancarmi le porte della Grande Mela è un altro incontro casuale, quello con Andrea Sbrizzo, manager di Del Posto, che dopo una veloce chiacchierata mi ha ingaggiato come head bartender, ruolo che ho lasciato dopo due anni per andare a dirigere il bar del Daniel“.
Ha rivolto quasi subito le tue attenzioni all’estero e continua a lavorare in Usa dal 2009. Può confrontare l’italia dal tuo punto di vista professionale con il resto del mondo? Quali le differenze?
“Ho girato davvero tanto, e ancora oggi penso che l’Italia sia il paese più bello al mondo, il problema siamo noi Italiani, non smettiamo di lamentarci e anche nelle grandi città abbiamo una mentalità provinciale, di paese, cerchiamo sempre di fare economia nelle cose. In America tutto è veloce e tutto è possibile, se si parla di un progetto si trova il modo di farlo e portarlo a termine. Per fortuna oggi tutto sta cambiando, ultimamente vedo cose fantastiche nel mondo del bartending e della ristorazione italiana. Possediamo la miglior materia prima al mondo, nostra è la miglior scuola di bar classico e abbiamo di natura un’eleganza innata, per questo dovunque vai, i migliori bar manager e capi barman sono sempre italiani”.
Parlando di materie prime e di trend, cosa piace oggi agli americani e cosa le ha insegnato il contatto con la clientela locale?
“I trend sono più o meno universali, solo le tempistiche sono diverse. Oggi in America sta spopolando la cultura dell’aperitivo italiano e dei low ABV cocktails con base bitter e vermouth, l’Italia non è mai stata così tanto al centro dell’attenzione dal punto di vista socio-culturale. Gli americani sognano una vita “all’italiana” e sono letteralmente innamorati del nostro stile di vita”.
Qual è secondo lei il futuro della mixology?
“Penso un ritorno al classico, alla semplicità dopo anni di esagerazione e di esasperazione. Spero si possa tornare nei cocktail bar e leggere menu non fatti e creati per altri bartender ma per i clienti normali, quelli che alla fine pagano e che sono l’anima del locale, e anche basta con questa parola Mixology, torniamo ad essere Barman, capaci di preparare un caffè, servire con un sorriso una spremuta e impariamo che il vero protagonista non è e mai sarà il cocktail, il cliente è sempre la più importante personalità all’interno di un bar. Bisogna intrattenerlo, parlare, sorridere e saper studiare e prevenire i suoi bisogni, in poche parole, bisogna tornare ad essere maestri nell’arte del servizio, come le generazioni di barman che ci hanno preceduti. Mi piacerebbe tornare a vedere quei barman vestiti in completo, che leggono 2 o 3 quotidiani al giorno e sono preparati su tutte le notizie e che sanno parlare e tenere un cliente al bar per ore senza mai essere invadenti, preparati su tutto ciò che una città può offrire così da poter consigliare”.