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Festeggiare il Columbus Day? Preferisco sulla Quinta Avenue il Viva Verdi!

Il dibattito su Colombo, le statue e l'attaccamento degli italoamericani all'esploratore genovese visto da un italiano arrivato tardi

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
Festeggiare il Columbus Day? Preferisco sulla Quinta Avenue il Viva Verdi!

La statua di Giuseppe Verdi a Manhattan, New York

Time: 6 mins read

Anche quest’anno, il dibattito su Cristoforo Colombo è stato acceso. In estrema sintesi, due le posizioni contrapposte: le statue devono essere abbattute perché simbolo di un genocidio, versus, le statue vanno difese in nome dell’italianità in America. Rispetto agli anni passati, però, il dibattito è cambiato, solo perché si è sovrapposto a quello nazionale sulle statue, simbolo degli Stati confederati pro schiavismo. Ma ogni anno, da quando vivo in America (25 anni!), con l’avvicinarsi del Columbus Day e della parata sulla Quinta, si riaccende allo stesso modo anche la mia discussione interiore, tutta personale, durante la quale cerco di capire perché gli italiani d’America abbiano scelto proprio il navigatore genovese come simbolo dell’orgoglio per le loro origini. Ragioni etniche o culturali? Sicuramente non nazionali, dato che l’Italia, al tempo dei viaggi di Colombo, era più che mai solo una “espressione geografica”.

Una statua di Cristoforo Colombo
Per un italiano ( siciliano, quindi “italiano esagerato”) come me, non cresciuto in America ma arrivato già in età adulta, l’attaccamento alla figura di Don Cristoforo, non può essere certo la stessa di quella di un americano di origini italiane. Per me, e penso per molti della mia generazione (classe ’64), Colombo era uno dei grandi esploratori del tempo, che si studiavano a scuola e del quale si doveva stare molto attenti a non confondere che cosa avesse fatto. Insomma mai dire “scoperto” l’America! Se lo dicevi o scrivevi, ti davano un bel 4 e ti rimandavano al posto. Semmai Colombo aveva, nel cercare una via nuova per le indie, aperto un “nuovo mondo” al commercio, dall’Europa e per l’Europa.
Inoltre da bravo “sportivo” italiano, a farmi venir meno la passione “nazionalista” per l’impresa di Colombo, si aggiungeva anche il cosiddetto “fattore C”: “C” che sta per Caravelle. La Nina, la Pinta e la Santa María del primo viaggio, infatti, battevano la bandiera della Spagna. E se da siciliano dell’epoca, in effetti, avrei potuto dire che in quel momento anche la Sicilia faceva parte della stessa “scuderia”, ecco che 500 anni dopo, da italiano, la situazione mi è sembrata diversa. Si sa che noi, nelle corse ad arrivare primi, ci appassioniamo più al mezzo che al pilota. Quindi, uno cresciuto da tifoso di un austriaco  che sulla rossa Ferrari conquistava i Gran Premi in Formula 1, come potrebbe mai appassionarsi a un genovese che magari era arrivato anche primo alla meta (tanto per di dire: in realtà aveva almeno 400 anni di ritardo sui vichinghi), ma su una “scuderia” straniera (spagnola)?
Una folla nei pressi della statua di Colombo a Manhattan: in quell’occasione, siamo nel 2014, si trattava di una protesta sul “Climate Change”, ma potrebbe presto trasformarsi in un attacco alla statua? (Foto Wikimedia/Beyond My Ken)
Tutta questa lunga introduzione per avvertire il lettore che, da italiano cresciuto in Italia, su Colombo non sono mai riuscito ad appassionarmi come un italiano cresciuto in America. E quello che sto per scrivere sulla polemica relativa alla statua (se vada tirata giù o tenuta su, ma non solo), è sicuramente influenzato anche da questa mia appartenenza, essendo parte di quell’ondata di “italiani arrivati per ultimi” in America. Fatta questa doverosa premessa, allora, dico innanzitutto che la statua, per carità, non la tirerei giù. Perché, seppur capisco che per qualcuno possa essere un simbolo di terrore, va detto che quelle di Colombo – compresa quella a New York – non furono erette con lo stesso obiettivo per cui furono erette quelle del generale Lee, dopo che la guerra civile in America era finita da oltre mezzo secolo. Le differenze ci sono eccome, tra i due casi. Colombo, per molti di quegli italiani emigrati a cavallo del diciannovesimo e ventesimo secolo, rappresentava una ciambella di salvataggio a cui aggrapparsi in un momento in cui, pur essendo arrivati già da anni, si continuava ad affogare nell’oceano di pregiudizi e razzismo dell’America a “potere Wasp“, di origine controllata.
Joseph Sciorra e Laura Ruberto, durante la presentazione del loro libro al John D. Calandra (foto John D. Calandra Institute)
 Come hanno spiegato bene Joe Sciorra e Laura Ruberto in un recentissimo loro saggio, a certi “prominenti” come Luigi Barsotti o Generose Pope, le statue servivano per farsi meglio accettare, per poi fare “business” proprio con la classe Wasp al potere, che per Colombo nutriva una certa simpatia (forse per come aveva trattato anche lui i nativi americani?). Ma per i derelitti arrivati con la valigia di cartone, costretti ancora a lavori umili, quei pochi soldi donati affinché si ergesse la statua di Columbus a New York rappresentavano ben altro: un riscatto morale e di appartenenza nazionale. O forse, ancor di più, una necessità di belonging (appartenenza) ad una patria che, per una classe di immigrati arrivata senza alcuna coscienza nazionale, con al massimo quella campanilistica e forse neanche quella, in America diventava una necessità, per non sentirsi nel gradino più basso della classe sociale. Per non sentirsi come “i neri”, insomma. Colombo, simbolo accettato dai Wasp, serviva non solo a farsi accettare come italiani, ma a sentirsi finalmente anche un po’ italiani. Poi ci pensò Mussolini a dare “la patria fascista” agli italiani d’America. Ma prima di lui, non c’era stato nessuno se non Don Cristoforo, ad aiutarli su quel fronte.
Il candidato indipendente Bo Dietl interviene durante il rally della comunità italo-americana di giovedì 24 agosto davanti a City Hall, a difesa della statua di Cristoforo Colombo

Detto quindi che queste statue, simbolo di un popolo di emigranti in cerca di integrazione in America per soffrire un po’ meno il giudizio e il razzismo riservato agli etnici non bianchi (si diventa tutti bianchi con Colombo), dovrebbero essere conservate come emblema di quella storia di sofferta assimilazione, ecco che la mia perplessità cresce quando si tratta di marciare sulla Quinta Avenue, e mostrare l’orgoglio italiano nel nome di Colombo. Sarà forse perché appartengo alla mia generazione cresciuta in Italia, ma io proprio il tricolore nel nome di Colombo non riesco a sventolarlo con passione. E penso che, dopo aver saputo da una mia collega colombiana, che neanche in Colombia, che porta persino il nome dell’esploratore, festeggiano un giorno a lui dedicato (anzi il giorno in cui Colombo viene festeggiano negli USA in Colombia si festeggia, guarda un po’, la resistenza indigena alle violenze dei conquistadores), come potrei appassionarmi io a Don Cristoforo? Mi sarebbe piaciuto e mi piacerebbe, piuttosto, festeggiare un altro giorno, “il giorno italiano in America”. Magari, che ne dite, per la nascita della nostra Repubblica il 2 giugno? Uhm, seppur realizzata grazie all’aiuto degli americani, milioni italiani attraversarono l’oceano per l’America molto prima della nascita della Repubblica italiana. E poi in questo caso mancherebbe anche l’eroe. Ma nella storia d’Italia, un eroe non è difficile da trovare. E allora, se proprio deve esserci una figura eroica (nel senso però più di “geniale”) a rappresentarmi come orgoglio italiano, e non potendo scegliere per ovvie ragioni quella sportiva che mi fa battere ancora il cuore (il cannoniere Paolo ‘Pablito’ Rossi, del Mondiale del ’82 in Spagna! Lo so, lo so, una pazzia generazionale…), allora ecco che vorrei un genio musicale che tutto il mondo riconosce. Non solo per la sua musica, ma anche per la lingua usata nella sua musica, come ha ben scritto recentemente il Prof. Stefano Albertini. Siete pronti? Giuseppe Verdi!

Arena di Verona: Nabucco, Giuseppe Verdi
Verdi, al contrario di Colombo, visse nell’Italia appena unita. E anzi, si sa che con la sua musica influenzò gli animi del Risorgimento. Inoltre proprio a quel Peppino che non era Garibaldi, molti patrioti inneggiavano nelle mura delle città italiane ancora sotto occupazione austriaca. Lo facevano con quel VIVA VERDI, che stava per “Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia”. Già Verdi poi, che con quella sua musica che parla italiano rende viva nel mondo una cultura che altrimenti, forse, avrebbe certamente poco per resistere.
Finazzer Flory nella parte di Verdi

Il nome di Giuseppe Verdi non è solo una provocazione. Ho saputo con grande gioia, infatti, che quest’anno il noto autore-regista-attore Finazzer Flory sfilerà sulla Quinta impersonando proprio lui, Peppino Verdi! Che meraviglia! Mi sa che questa volta, sulla Quinta potrei andarci volentieri. Ma ci andrei, alla parata del Columbus Day, non per magnificare le gesta di un grande pilota, oh, scusate, esploratore, che arrivò dove non prevedeva con delle caravelle prestate da una regina spagnola, bensì per elogiare le gesta di un grande artista. Per celebrare le opere di un italiano, quando l’Italia stava per farsi – seppur, con tutte le sue contraddizioni, sempre bella e non più perduta -. Un italiano che è stato il più grande compositore d’opera di tutti i tempi, perché dopo tutto l’opera lirica verdiana rappresentava e rappresenta pene e letizia, amori e difficoltà della vita umana. Comprese, forse, quelle vissute dagli immigrati italiani in America.

Che sia Giuseppe Verdi l’eroe musicale che può riunire le generazioni della comunità italo-americana d’America? Questo non lo so. Ma un bel VIVA VERDI sulla Quinta lo direi, un VIVA VERDI alto per inneggiare non solo all’orgoglio italiano, ma anche per dedicare un inno all’arte e alla bellezza dell’umanità intera. In nome della musica, quella sì, che forse riuscirebbe ad unire finalmente tutti, anche gli italiani in America.
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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e diretto (2013-gennaio 2023) La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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