Il toro scatenato, violento, disperato di quello che è forse il film più bello di Martin Scorsese è morto il 19 settembre in Florida, lontanissimo dal Bronx degli anni Venti dov’era nato e cresciuto, dalla New York degli anni Quaranta dove aveva cominciato (e continuato) a combattere per rabbia, insicurezza, gelosia, lontano dal titolo di campione del mondo ottenuto a Denver nel 1949. E lontano anche dal sanguinoso incontro con Sugar Ray Robinson che gli costò il titolo e che fu l’inizio di una lunga fine, una fine che in verità per LaMotta era già iniziata molto tempo prima, annunciata fin dall’inizio da quel suo carattere insicuro e rabbioso, da quella gelosia ossessiva per la moglie che lo divorava e che lui trasformava sul ring in pugni ciechi e letali contro gli avversari.
Quando finalmente si decise a fare il film, su insistenza proprio di Robert De Niro che voleva a tutti costi interpretare Jake LaMotta dopo averne letto l’autobiografia, Scorsese arrivava da un periodo buio, e la lunga, estenuante fine disperata e tragicamente ridicola di un ex campione del mondo era per lui il testamento artistico perfetto, in quello che immaginava sarebbe stato il suo ultimo film.
Raging Bull (Toro scatenato) paradossalmente non è un film sulla boxe ma è piuttosto un film sulla gelosia cieca che scatena la rabbia, sull’insicurezza di un uomo all’apparenza forte e invincibile che diventa violenza sfrenata, sul senso di colpa che sul ring diventa punizione e auto-punizione, è un film sulla turbolenta ascesa e sull’inevitabile, infinita caduta. Ma al tempo stesso Raging Bull è il più grande film sulla boxe di tutti i tempi, in cui la “nobile arte” si svela prosaicamente sullo schermo per quello che è. E’ sangue, fluidi, rumori di pugni, di carne, di ossa, di grida, di respiri soffocati, è neon, è flash abbagliante delle macchine fotografiche, è una boxe fatta come il film di dettagli duri e sgradevoli, di ferite fuori e dentro. La nobiltà del combattimento è tutt’altra storia ed è quanto mai lontana da Jake LaMotta, dalla New York e dal pugilato sporcati e divorati dalla Mafia degli anni Quaranta, quella Mafia che per sua stessa ammissione (anni più tardi) il toro del Bronx dovette compiacere per iniziare la sua carriera ma a cui poi si sostituirono i fantasmi della sua vita, spingendolo a vincere a tutti i costi. Martin Scorsese, insieme a Mardik Martin e Paul Scharder (già perfetto sceneggiatore del meraviglioso Taxi Driver), alla sua storica montatrice Thelma Schoonmaker e a Robert De Niro (gli ultimi due, vincitori dell’Oscar con questo film) costruiscono con grande meticolosità e fatica un film perfetto, che dai primi, famosissimi fotogrammi ci annuncia già la fine grandiosa e miserabile di una leggenda del pugilato mondiale, divenuta leggenda anche grazie a Raging Bull. C’è New York dentro a questo toro scatenato, c’è il Bronx degli italoamericani della prima metà del Novecento e c’è il Greenwich Village delle riprese del film, quartiere anch’esso all’epoca in gran parte italoamericano dove lo stesso De Niro è cresciuto. E c’è sempre tra le righe, o tra i fotogrammi, la Little Italy dell’infanzia di Scorsese.

Jake LaMotta si ritirò dal pugilato nel 1954, visse una vita burrascosa, in pubblico e nel privato, si ritrovò a fare comparsate in film e programmi tv, a gestire bar e strip club, si ritrovò su palchi di quart’ordine a raccontare le sue gesta e far ridere il pubblico, vendette le gemme della sua cintura di campione del mondo per cercare di sistemare un po’ di debiti, finì in prigione, a spaccare con i pugni le pareti di una cella. E quel dialogo allo specchio – preso da On The Waterfront (Fronte del porto) – nel camerino prima di andare in scena, con i suoi trenta chili arrivati con gli anni e le sconfitte della vita, racconta tutto di Jake LaMotta e rappresenta il senso stesso del film di Scorsese: “I coulda been a contender”, sarei potuto diventare un campione, dice il toro del Bronx guardandosi allo specchio, provando le sue battute prima di andare in scena. Ma non è De Niro che fa Brando (anche perché De Niro l’imitazione di Brando l’avrebbe fatta meglio) ma è De Niro che fa LaMotta che fa Brando che fa Terry Malloy. E questa non è solo una scelta narrativa o stilistica, come tante e precise e perfette ne ha fatte Scorsese in tutto il film, scelte di regia, una regia fatta di ralenti, tagli e dettagli, scelte di sceneggiatura, di direzione degli attori, di montaggio, di colonna sonora. La scelta di questo breve dialogo allo specchio, ripreso come solo Scorsese poteva fare, questo è semplicemente grande cinema.
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