A cadavere freddo e tumulato, quando la canea mediatica sta per chiudere i riflettori ed accanirsi su altri personaggi e vicende, sono pronto a parlare della fine di un’epoca. Quando sulla via che percorreva il feretro un popolo si accalcava in lacrime, quando tanto dolore traspariva da uomini e donne di diversa cultura e grado sociale, qualcosa di vero dovevano trascrivere le immagini. Davanti ad esse si potevano ancora rievocare le carceri piene di torturati e assassinati, le fughe in un mare pericoloso verso l’altra riva che in modo irridente gli Spagnoli avevano battezzato Florida. Anche quel tratto di mare come il nostro Canale di Sicilia è seminato di cadaveri, di profughi in vista di una terra che si immaginava il Paradiso terrestre. Difficile sapere quanti di questi profughi si guadagnarono l’Eden, quanti altri rimasero diseredati e miserabili quanto e più che nella patria.
I fortunati e affascinanti Andy García non dovettero essere molti.
Voglio ribadire in margine che in questi giorni di lutto per un popolo è semplicemente sacrilego inneggiare e brindare alla morte di un loro leader seppure odiato. Fra tutti i popoli, a cominciare da quelli detti in etnologia “primitivi”, generale e sentito, prima legge sociale, è sempre stato il culto dei morti. Sempre, dall’India, agli Egizi, ai Greci e ai Romani, fra i “selvaggi” delle foreste africane e amazzoniche. L’analisi storica è altra cosa e troppo recente e vivo è il ricordo del sangue pulsante per stilare un rigo sull’operato del tiranno scomparso.
Quello che volevo sottolineare in questo particolare momento storico, quando ogni giorno possente si leva il randello di Trump, minacciando punizioni a destra e a manca, le parole che voglio spendere, è ad onore di una iniziativa umanitaria che si spera non venga insabbiata o cancellata.
Proprio in nome di quel bene del popolo che il nuovo monarca degli States va bandendo. Se un tempo in punizione del mostro Fidel Castro e del suo aguzzino il Che si è voluto affamare un popolo innocente, se questa esclusione si è perpetuata e perpetrata per decenni, pur con il cambiare dei governi, repubblicano, ma anche democratico, si ricordi il buon John Kennedy, che avviò tante guerre nel globo, se questa punizione è stata infine attenuata dal colloquio di un presidente di origini africane, voglio sperare che in nome di quel bene del popolo, che si affannano a definire populismo, si prosegua la linea di perdono di un popolo, quello cubano, che ha scontato le colpe e gli errori strategici dei loro e di altri governanti. Alla fine Fidel Castro che rovesciò con i suoi barbudos il tiranno Fulgencio Battista fu spinto per insipienza nelle braccia del comunismo sovietico.
La speranza che questa linea di comprensione e di perdono non venga tagliata, che anche Trump si accorga che il popolo non merita ed eredita le colpe dei suoi governanti, mi fa alzare questo appello.
Sull’onda della speranza di un mutamento dei benefattori sono volati a L’Habana. Con un sogno, l’eterno American Dream. E in seguito all’analisi e alla consapevolezza che la miseria e la povertà più umilianti nascono dalla mancanza del bene primigenio di sussistenza: il cibo, radice e base della vita materiale. Questo ha pensato Horace Clemmons, questo ho saputo dalla cara amica Elisabeth, la moglie di origini prizzesi. E di questo uomo sono orgoglioso. Tutto si compì come per incanto dopo il colloquio rivoluzionario tra i due presidenti Barack Obama e Raoul Castro, quei miracolosi 45 minuti del mezzogiorno del 17 dicembre 2014 che aprirono una linea di scambio di opinioni, aprirono un varco dopo una crisi durata 53 anni e un embargo che ha punito solo il popolo. Due uomini convennero che si poteva, si doveva discutere anche se in forza di un nazionalismo e non dell’umanesimo di Cicerone e del Quattrocento, ma anche degli Enciclopedisti che dettarono i principi della Costituzione americana: «Todos somos americanos». Fu allora che Saul Berenthal spiegò ad Horace Clemmons, amico e socio in affari di antica data, di volere fare qualcosa a beneficio del popolo cubano. E l’amico Horace rispose: sono pronto. Quel popolo importava l’80% di cibo (due miliardi di dollari), la produzione era difficile a causa della mancanza di trattori e il prezzo impossibile di quelli disponibili.
L’idea geniale: fabbrichiamo dei piccoli trattori a prezzi speciali. Così oggi Horace scrive a spiegare l’origine della loro fabbrica che è ormai sbarcata e consolidata a L’Avana: «Essendo cresciuto nelle zone rurali del Nord Alabama dove mio nonno coltivava 40 acri con due muli, avevo assistito al passaggio in America dal bestiame ai trattori. Sapevo che Cuba avrebbe probabilmente iniziato allo stesso modo come abbiamo fatto. Un costo efficace, un robusto trattore in singola filiera. Mi sono ricordato dell’Allis Chalmers G, ultimo fatto nel 1955, copiato da molte persone dopo che i brevetti sono scaduti nei primi anni del 1970. Abbiamo deciso di non copiarlo, ma di utilizzare il disegno per produrre un capolavoro di tecnica motrice a sistema aperto».
E meglio chiarisce Saul Berenthal che più che un’impresa commerciale, il loro progetto Oggun è diventato un’avventura: «Horace è il trattore Guy, Saul il ragazzo Cuba». Questa è l’eccezionalità della loro missione. Vuol dire che egli ha lasciato Cuba nel 1960, subito dopo che Fidel (RIP) ha trasformato Cuba nel paese socialista di oggi. Ha ottenuto la sua formazione presso la Long Island University, ha lavorato per 18 anni in IBM, dove ha incontrato Horace e subito sono diventati amici – partner per tutta la vita. Entrambi, dismessa l’IBM, hanno fondato, accresciuto e poi venduto tre imprese: «Con l’aiuto di Orazio, ho vissuto il sogno americano». Venduta l’ultima impresa, ha iniziato a viaggiare a Cuba per vedere e imparare ciò che era accaduto. Si è fatto buoni amici e ha «imparato molto circa il socialismo, – Il buono …. Per così dire». Lo straordinario di questo cubano è che è tornato, che ha voluto beneficare il suo popolo, donare la sua esperienza, salvare i suoi concittadini. La parabola inversa di un miracolo: dare un sogno, il suo sogno americano acquisito ai suoi fratelli cubani. Perciò «alla fine del 2014, Obama ha creato la parte americana del percorso, ma Raul aveva lavorato al suo fianco dal 2010. Un quadro per un nuovo modello economico è stato creato e firmato in legge nel 2011. Da allora, questo nuovo quadro viene attuato e ha compiuto progressi significativi nell’introduzione dei principi del settore privato nell’economia di Cuba. Molto resta ancora da fare e il progresso è complicato da forze esterne (Embargo), ma come dice Raul “Sin Prisa, pero sin Pausa” (“Senza fretta, ma senza pause”).
Quello che era iniziato come una proposta commerciale di coniugare lo spirito imprenditoriale americano con un tema di valore sociale dal quale potrebbe trarre beneficio il popolo cubano, si è trasformato in quello che oggi chiamiamo “Non è un trattore, ma un modo di pensare”. Per inciso, questa è una frase detta di noi da un giovane cubano che è ormai non solo un amico, ma un collaboratore di CLEBER Cuba. Abbiamo voluto fornire uno strumento in grado di migliorare la produttività, creare benessere e sfruttare l’autosufficienza che è così radicata nel popolo cubano. Speriamo che possa anche servire per la gente dei due paesi come un modo per meglio comprendere l’altro e contribuire a portare i nostri governi a normalizzare le relazioni, impegnarsi in commercio e riaccendere la buona volontà». In questo grandioso progetto Horace porta le sue capacità di conduzione agricole e di progettazione di ingegneria, Saul dichiara di portare la sua esperienza della cultura cubana, le sue “abilità diplomatiche” e il suo background aziendale ebraico per creare Oggun. Ciò crea un modello di business, dove l’utente finale, il contadino, diventa parte essenziale del processo. L’agricoltore può contribuire al disegno, per modificarlo come è necessario nel campo, per migliorarlo, e, infine utilizzare il concetto di creare la propria attività locale, essendo lui nella produzione o manutenzione.
Ma la conclusione più sostanziale e immensamente universale, nella forma del bene dell’umanità intera, è espressa nell’insegnamento che ne hanno ricavato: «Questo ora abbiamo imparato, non è applicabile solo a Cuba, ma in molte altre aree del mondo. Oggi si possono incontrare persone provenienti da altri paesi che stanno lavorando con noi nel portare questo “modo di pensare” (“way of thinking”) per i loro paesi». Questa è la forza travolgente che addita una speranza, il sogno che la fratellanza e la solidarietà possano sconfiggere il meschino egoismo del possesso di effimeri beni di consumo. Ed è auspicabile che questa via non sia troncata, che gli uomini di buona volontà facciano quadrato, che l’umanità rifletta sul baratro che si sta scavando davanti, che la fame è la peggiore punizione, che essa è conseguenza dello sfruttamento dei potenti, che da sempre hanno sfruttato e depredato interi continenti. Esistono ancora portatori dell’American Dream.