Questa intervista è stata pubblicata su America Oggi, l’ 11 ottobre 2010.
Non è la prima volta che entriamo nello stupendo brownstone del West Village, che alla dodicesima strada, tra Quinta e Sesta Avenue, è sede della Casa Italiana Zerilli Marimò della New York University. Ma ogni volta che lo facciamo – per chi scrive almeno da quindici anni – il cuore si riempe di gioia fiera del sentirsi italiani in America. Da nessuna altra parte ci capitano certe vibrazioni di sentimenti così “nazionalistici”, come quando entriamo in questa palazzina restaurata alla fine degli anni Ottanta ed inaugurata, proprio venti anni fa a novembre, come sede di un centro culturale e accademico ormai tra i più importanti degli Stati Uniti. E questo nostro stato d’animo non è causato solo dalla magnifica bellezza del restauro, ma soprattutto per quello che accade ogni giorno al suo interno, per quell’atmosfera di assoluta libertà nelle arti e nel pensiero che si respira tra le sue mura e che trasmettono gli eventi che avvengono in quel gioiello di sala-teatro.
Appena entrati, ci accoglie una curatissima mostra intitolata Gabriele d’Annunzio: Living Life As a Work of Art, che si può ammirare fino al 15 dicembre. Siamo venuti per intervistare il Direttore della Casa Italiana, il Prof. Stefano Albertini, e la Presidente-fondatrice della istituzione della NYU, la Baronessa Mariuccia Zerilli Marimò. Questo autunno la Casa Italiana Zerilli Marimò compie venti anni di attività, il 4 novembre ci sarà un grande concerto e una cena di gala con fundraising che la New York University organizza per celebrare quella sua istituzione culturale, sede del Dipartimento di studi italiani, diventata praticamente la più autorevole istituzione accademica per quanto riguarda lo studio dell’Italia negli Stati Uniti.
Troviamo Albertini e la Baronessa mentre, in un ufficio della Casa, studiano gli ultimi particolari per uno dei programmi. Lavorano insieme da quindici anni, si capiscono al volo. Questo affiatamento è una delle ragioni del grande successo raggiunto a New York da questa istituzione.
Venti anni tra tantissimi eventi. Vi viene in mente una manifestazione che vi è rimasta particolarmente nel cuore?
Mariuccia Zerilli Marimò: “Mi viene il ricordo di due scomparsi e forse non sarebbe giusto dirlo, ma quando dei grandi purtroppo non ci sono più, sono ancora più grandi. E tra questi grandi che sono stati qui, mi vengono in mente Vittorio Gassman e Giorgio Strehler. Abbiamo avuto queste due stelle, entrambi hanno recitato nel nostro piccolo teatro. Eventi rimasti molto vivi nella memoria”.
Stefano Albertini: “Io più che nell’evento in sé, e ovviamente voglio che sia un successo, che venga tanta gente, che se ne parli sulla stampa etc, per me la grande soddisfazione arriva quando vedo che da qualcosa che succede alla Casa italiana, scaturisce qualcos’altro. Ad esempio, Paolo Mastrolilli ha presentato qui il suo libro “Adelfi”. Era presente in sala un editore americano, Robert Miller della Enigma Books. Da questa presentazione ne è scaturita la traduzione e la pubblicazione in inglese. Un libro che racconta la storia di due fratelli divisi dalla guerra, diventa disponibile anche per il pubblico americano grazie ad un evento della Casa italiana. Questo è solo uno dei tanti esempi”.
In questo ventennio di attività, è stato più facile promuovere la cultura italiana agli inizi oppure negli ultimi anni?
MZM: “Chiaro che quando tu sei conosciuto, come ormai avviene per la Casa Italiana della New York University, tutto viene più facile. Oramai la Casa è conosciuta come una istituzione molto seria, con un’ottima organizzazione e presentazione. I primi anni certo era più difficile, non essendo ancora molto conosciuti dovevamo essere noi a chiedere ad autori, ad artisti di venire, adesso abbiamo anche troppe richieste, sono di più di quelle che possiamo soddisfare. Anche perché negli anni abbiamo cercato sempre di favorire la qualità piuttosto che la quantità. Una mostra qui c’è sempre, abbiamo circa ottanta eventi all’anno. Abbiamo avuto sempre eventi di alto livello, ma devo dire che è stato anche un crescendo, un aumento nella qualità”.
SA: “Sono d’accordo con la Baronessa. La difficoltà maggiore sarà stata agli inizi, io non c’ero neanche, ma adesso sempre di più il nostro lavoro è di dire dei no. Cioè di selezionare tra le proposte che riceviamo. E poi di essere propositivi a nostra volta, seguendo un programma, una traccia. Per il prossimo anno sarà l’unificazione d’Italia per il 150esimo anniversario, una riflessione sull’idea di unità nazionale. Dal punto di vista di ottenere che le persone vengano, è diventato un lavoro molto facile. Credo che nessuno ai quali abbiamo chiesto di partecipare, ci abbia detto no, non vengo, non mi interessa… Credo che anche la domanda chiedeva se fosse cambiato l’atteggiamente del pubblico nei confronti della cultura italiana. Io direi che abbiamo iniziato in un momento di grazia per l’immagine dell’Italia. Gli inizi degli anni novanta erano proprio il boom del made in Italy. Tutti volevano sembrare italiani. L’Italia era diventato un sinonimo di eleganza e qualità della vita. Quindi le attività della Casa sono iniziate in un momento di grazia, e il mio timore era che questo momento prima o poi sarebbe svanito. Che saremmo ritornati ad una dimensione un po’ più sotterranea. E invece abbiamo conosciuto un interesse continuo. E poi alla NYU abbiamo avuto una congiuntura particolare. In una università dove l’italiano era una disciplina marginale, nel giro di quattro anni l’italiano ha avuto prima la Casa Italiana, che è una delle più belle case internazionali, senz’altro anche più grande fisicamente delle case francese e tedesca, che erano da più tempo presenti. E quindi più visibilità nel campus e nella città. E poi è arrivata Villa la Pietra a Firenze, la più grande donazione mai fatta all’università…”
Già, da Lord Acton…
MZM. “Sir Harold Acton, che la lasciò alla New York University”.
SA. “Nel giro di quattro anni, queste due donazioni alla NYU, una sul campus qui e una a Firenze, hanno fatto sì che l’italiano da disciplina marginale diventasse assolutamente centrale per la nostra università”.
Quanti sono gli studenti, anni di college e graduate, che frequentano i corsi alla NYU di italiano?
SA. “Noi abbiamo una media di 400 studenti a semestre solo di lingua. Poi ne abbiamo circa 200 che fanno i corsi di letteratura, storia dell’arte, storia… Il nostro dipartimento è interdisciplinare, oltre alla parte letteraria che rimane la più forte, c’è una parte storica e una parte artistica”.
MZM. “C’è anche da dire che il nostro dipartimento d’italiano è stato considerato il primo degli Stati Uniti dal Chronicle of Higher Education”.
Cioè battete Harvard?
SA. “Ad Harvard ci sono solo due professori, tra quali il nostro ex collega Francesco Erspamer. I numeri hanno il loro valore, noi abbiamo nove professori, due grandi esperti del Medio Evo, due grandi esperte del Rinascimento, due dell’Età moderna, uno storico dell’arte contemporanea…”
MZM. “Storico dell’arte che altri non hanno. E non solo. Io adesso per i venti anni della Casa italiana ho offerto la cattedra di studi socio-politico-economici italiani. E questo non ce l’ha nessuno. Studi dal 1945 in poi”.
Quindi una cattedra nuova di zecca. E già stata assegnata?
SA. “Sì, a David Forgacs dell’University College of London e inizierà a settembre dell’anno prossimo. Il regalo della Baronessa per i venti anni della Casa italiana”.
Si parla spesso, almeno in Italia, di cultura italiana in decadenza… Allora, in venti anni di esperienza con la Casa Italiana, con certi artisti italiani in tutti i campi che si presentano a New York, avete notato una forma di decadenza culturale italiana?
MZM. “Io non direi. Per esempio qui abbiamo creato anche un premio italiano di letteratura, e in tanti anni abbiamo avuto autori e autrici di ottimi libri che poi sono stati tradotti e distribuiti. Io non direi che la nostra cultura sia in decandenza, anzi”.
SA. “È difficile essere giudici dei propri contemporanei. Ci manca un po’ lo spazio critico che ti permette il distacco che serve per esprimere un vero giudizio critico. Di sicuro la Casa non si è mai fermata al passato, fin dall’inizio. Il primo grosso evento si chiamava The Disappearing Pheasant, un convegno sulla poesia contemporanea in Italia e in America, che fece il Prof. Luigi Ballerini, primo direttore della Casa italiana. Quello è stato emblematico che si sia iniziato con un grande evento contemporaneo. Noi non vogliamo presentare l’Italia come un paese mummificato, un museo. Certamente noi siamo ben fieri di presentare il nostro passato, ma da sempre ci è stato chiaro che questo doveva essere un posto per presentare un paese che era vivo, che produceva non solo a livello industriale ma anche cultura. Poi il giudizio di valore sulla qualità è molto difficile da esprimere. Ad esempio nel cinema. Noi abbiamo avuto qui il premio oscar Gabriele Salvatores, che ha fatto un paragone molto bello quando ha detto ‘il cinema italiano ha avuto un grande padre, il neorealismo, e una grande madre, la commedia all’italiana, con un padre e una madre così è molto difficile camminare da soli’. Nel giudizio di chi ti giudica, ti senti sempre che ti stanno paragonando a Rossellini… Però negli ultimi sono usciti dei film straordinari, c’è stato Gomorra, c’è stato il Divo, l’ultimo di Giorgio Diritti L’uomo che verrà, film di altissimo valore.”
MZM. “Certamente, qui alla Casa Italiana abbiamo avuto i più grandi registi”.
Insomma, l’Italia anche in questi ultimi anni non vi da problemi, vi fornisce buon materiale culturale…
SA. “Dobbiamo dire, onestamente, che mentre in Italia negli anni cinquanta pubblicare un libro era estremamente difficile, e gli editor delle case editrici erano feroci, e spesso loro stessi erano grandi scrittori, pensiamo Vittorini, Bassani, che a volte prendevano anche delle grandi cantonate, ora il mondo editoriale è cambiato, giustamente e per fortuna c’è molta più gente che legge e quindi c’è più bisogno di tanti titoli, per cui forse non c’è più quella selezione dall’origine. C’è molta più gente che scrive, si pubblicano molti titoli, l’offerta è più grande per cui si chiede anche a noi più selezione”.
Alla Casa italiana non passano solo i protagonisti della cultura e dell’arte italiana, ma anche quelli della politica. In questi venti anni ne sono passati tanti…
MZM. “Eccome. Occhetto, Di Pietro e in piena Mani Pulite. Maroni, D’Alema, Rutelli, Letizia Moratti, Fini è venuto tre volte, e tanti altri…”
In questi venti anni, il pubblico della Casa come ha reagito a questi interventi?
MZM. “Guardi la nostra sala è sempre piena. Anche ieri sera (mercoledì, ndr) abbiamo avuto una grande presenza per la conferenza su D’Annunzio e la mostra sul poeta, che abbiamo appena inaugurato. Col teatro pieno, abbiamo dovuto mettere la televisione a circuito chiuso in modo che la gente possa seguire…”
Ma in questi venti anni, pensate che certi politici passati da qui abbiano spiegato al vostro pubblico l’Italia per quello che è? Ci riuscivano meglio in passato o negli ultimi anni?
SA. “Questi venti anni hanno coinciso in qualche modo con il cambiamento epocale che è avvenuto in Italia. Dalla fine dei partiti tradizionali, all’inizio di una nuova fase politica nella quale ci troviamo tuttora. A me non piace usare l’espressione Seconda repubblica, perché la Costituzione non è cambiata , ma senza dubbio un cambiamento epocale c’è stato. Un terremoto provocato da una parte dal crollo del Muro di Berlino e dall’altra dalla operazione Mani Pulite e dall’emergere di forze politiche che prima non esistevano in Italia, un punto di frattura tra il prima e il dopo. La nostra nascita ha coinciso con il nostro dopo. Negli anni abbiamo visto che agli inizi, i politici erano molto interessati a venire qua per spiegare queste cose, mentre ultimamente molto meno. Questo perché tutti prima cercavano una qualche forma di legittimazione. Fini è stato qui da noi la prima volta quando aveva appena cambiato il nome al suo partito, è stata la sua prima uscita internazionale dove lui ha incontrato la comunità ebraica, ecco doveva spiegare agli americani in cosa consisteva questo cambiamento, questo passaggio epocale per il suo partito. Anche Occhetto e D’Alema in qualche modo dovevano presentare il loro cambiamento, che non era solo del nome ma anche della sostanza. Tutti, in quella fase di sommovimento politico, dovevano dimostrare qualcosa, e spiegarlo all’estero gli veniva bene e soprattutto alla Casa Italiana della Nyu perché non era una istituzione italiana, non era il consolato, e sapevano che venendo qui non erano tutelati, sapevano che ci sarebbero state delle domande che nessuno monitorava, qui nessuno ha mai proibito a nessuno di far domande. E io sono sempre stato colpito dalla grande civiltà del nostro pubblico. Anche nel dissenso, non ricordo mai che ci sia stato un momento sgradevole, offensivo, è sempre stato un confronto dialettico”.
Ma adesso? Perché sono di meno a venire?
SA. “Io non voglio prestare la Casa per la propaganda politica. Da quando ci sono le elezioni anche per gli italiani all’estero, evidentemente sono sommerso dalle richieste dei vari partiti. Se uno viene e si mette in una posizione interlocutoria con altre persone scelte ovviamente da noi, va benissimo. Se invece è per presentare la sua piattaforma politica, questo non è il posto adatto. È molto cambiato l’atteggiamento dei politici italiani quando vanno all’estero. Ripeto, prima avevano il desiderio di legittimarsi, di spiegare chi erano. Ultimamente molto meno. Il panorama politico italiano si è molto consolidato…”.
MZM. “Io direi che molto si è provincializzato, tutto è diventato locale, per cui i nostri politici non sentono più il bisogno di venire qui a parlare di politica”.
SA. “Quando Fini diceva che noi non siamo più fascisti ma siamo una destra europea moderna, quello era un concetto difficile e complesso che voleva spiegare. Quando Occhetto ha cambiato nome al Pci facendolo diventare il Pds, voleva spiegare agli americani il cambiamento che c’era stato. Adesso è tutto molto assestato, con un dibattito molto autoreferenziale, e d’altra parte siamo diventati molto meno interessanti politicamente, se non culturalmente, per gli americani. Non abbiamo più il valore strategico dei tempi della guerra fredda…”
MZM. “Però questa cattedra che io ho appena donato sugli studi dell’Italia contemporanea, l’ho fatto anche perché molti amici americani mi continuavano a dire di non riuscire a capire l’Italia di oggi. Io spero che con una cattedra del genere, molti dei nostri studenti riusciranno a capir meglio il nostro sistema politico, un po’ bizantino e già molto difficile da capire per gli italiani stessi…”
La Casa non ha mai temuto di toccare certi temi che possano mettere in cattiva luce l’Italia. Uno su tutti, quello della criminalità organizzata, mafia etc. Qui presentate l’Italia per quella che è, giusto?
SA. “Certo, non si fa propaganda, insomma non siamo un ufficio del turismo. Sul fenomeno della criminalità organizzata, è inutile pensare che si possa negare, la mafia esiste. Certamente dobbiamo anche dire che se alla mafia sono stati inferti colpi mortali è stato grazie agli italiani. Cioè quando parliamo di persone come Peppino Impastato, di magistrati e ufficiali di polizia…”
MZM. “Come il Procuratore antimafia Pietro Grasso che è stato qui da noi…”
SA. “Ecco si parla di mafia, ma anche dello sforzo per combatterla che viene dall’Italia, dalla sua società civile. Dire che i problemi non esistono non è fare un servizio, né alla verità né all’Italia. Se i problemi ci sono si affrontano. Certo qui si è sempre cercato di evitare un tono lagnoso o catastrofista. Ma ripeto, non dobbiamo vendere nulla, non dobbiamo fare pubblicità acritica”.
Per questo ventennale della Casa c’è qualche evento particolare che state approntando?
SA. “La nostra mostra su D’Annunzio abbiamo voluto che coincidesse con le nostre celebrazioni, ed è un modo per fare una riflessione su cos’è l’identità italiana”.
MZM. “La mostra su D’Annunzio infatti si ricollega all’identità italiana nel 150esimo anniversario dell’Unità. Insomma la figura di un grande poeta e patriota, sicuramente tra le più importanti e carismatiche personalità della storia d’Italia, meritava di essere esplorata qui a New York. Soprattutto da chi ancora non la conosceva”.
Baronessa, la Casa italiana è dedicata a suo marito, il Barone Guido Zerilli-Marimò, diplomatico, giornalista e poi grande imprenditore dell’industria farmaceutica, che espresse il desiderio di voler fare qualcosa per l’Italia a New York, città che amava moltissimo. La Casa italiana della Nyu è oggi diventata quello che lei, con la sua donazione alla più grande università privata degli Stati Uniti, si auspicava venti anni fa?
MZM: “Sa, quando lei ha un bebé, sa che il bebé le può dar poco, lei deve sempre accurarlo di continuo, farlo crescere. Devo dire che questa Casa è cresciuta tantissimo. Fisicamente è nata bella, io ho voluto che qui ci fossero i marmi italiani, insomma che fosse casa italiana anche nella sua bellezza. Però, naturalmente nel tempo, io sapevo già cosa volevo che questa Casa fosse. Devo dire grazie al cielo, e grazie anche ai collaboratori che ho avuto, dal primo direttore, il Prof. Ballerini, al bravissimo James Ziskin, e poi con la fortuna di avere ancora il Prof. Stefano Albertini che dirige in maniera eccezionale, organizza e segue tutto, ormai è da 16 anni che lavoriamo insieme, devo dire i frutti ci sono tutti. Però bisogna sempre guardare avanti, per cui non è che noi diciamo: ecco venti anni, quindi basta abbiamo raggiunto l’obiettivo…”.
Ma se venti anni fa le avessere detto che nel 2010 la Casa della Nyu sarebbe stata così, ci avrebbe messo la firma?
MZM. “Sarei stata molto soddisfatta, ma naturalmente da quanto raggiunto vedo che dobbiamo andare oltre.”
Il rapporto tra la Casa e la New York University, sin dalla presidenza di John Brademas, come si è sviluppato?
MZM. “Guardi io posso veramente dirlo, in venti anni, non c’è stata una volta che qualcuno della Nyu sia venuto in questa Casa a dirci perché fate questo invece di quello… Io ho tre decorazioni della New York University, adesso me ne danno un’altra, quella che mi mancava. L’unica volta in cui non è stato accettato quello che avevo proposto, è stato adesso, in occasione dei venti anni. Io volevo fare una cosa interna, una mostra e una festa carina, invitando gli amici della Casa, per festeggiare l’avvenimento, ma loro hanno detto ‘no’. ‘Adesso questo deve essere un fundraising, perché a New York funziona così, tu in venti anni non hai mai chiesto niente a nessuno’. Questa casa è cresciuta, e ora ci deve essere, come chiamano qui, un benefit. Allora ho dovuto chinare la testa. Ma siccome lo hanno fatto nell’interesse della Casa e stanno dando un aiuto veramente di base, direi di tutto, io sono molto, ma molto grata all’Università perché in questi venti anni abbiamo avuto sempre una collaborazione perfetta, così come anche con il capo del dipartimento di italiano, c’è stata sempre una intesa perfetta. Quindi Evviva la New York University!”