The Story of My People, Bordighera Press, del Suny Distinguished Service Professor Mario Mignone, si presenta come il racconto della vicenda umana di una famiglia, quella dell’autore, immigrata dal beneventano negli Stati Uniti nella seconda metà dello scorso secolo. In realtà, sotto la pianezza della cronaca famigliare, si dipana un’analisi, di valore sociologico e antropologico, sul drammatico scontro-incontro tra una cultura contadina proprietaria, tradizionale patriarcale e clanica, e la struttura fondamentalmente industrial-cittadina e modernista della società americana.
La storia di famiglia, narrata con emozione e densa partecipazione, diventa riferimento per la costruzione continua di teorie e modelli utili alla comprensione del complesso fenomeno dell’immigrazione italiana nel continente americano. In questo senso, il libro di Mignone trascende il caso particolare e diviene anche narrazione dell’epopea che ha coinvolto decine di milioni di nostri connazionali, dispersi nei mille angoli del continente dalla spinta a migliorare la situazione personale e famigliare fuori dalla terra delle origini, manifestamente incapace di corrispondere.
La sua, di epopea, Mario la inizia nel 1960 quando, ventenne e primo dei sette fratelli in partenza, attraversa l’oceano con la madre, senza il padre bloccato in Italia dalle paranoie maccartiste, per ricongiungersi ad alcuni parenti e al “sogno” americano. Il gruppetto di esuli dal bisogno, s’installa nel Bronx e Mario trova subito lavoro in una fabbrica di macchine utensili, dove resterà un quinquennio. Testa istinto e ambizioni, però, sono altrove: presto, grazie ad amici italiani, avviene il “landing at City College” che l’autore chiama “the best blessing” della vita, perché Cuny, era un’opportunità di crescita non solo intellettuale ma sociale, tanto forte era la spinta ad emergere nei suoi giovani studenti. I corsi serali gli consentiranno di avviare il cursus honorum che si trasformerà presto in percorso professionale: “It was the beginning of a journey that lasted all my lfe”.
Coerente con l’understatement che lo caratterizza nel lavoro e nelle relazioni umane (scrive a bilancio: “…I feel very satisfied with our emigrant experience and our modest accomplishments…”), Mignone non fa del libro l’occasione per proporsi come prototipo dell’immigrato di successo, o ritagliarsi un’icona nella galleria dell’epos italiano americano. Gli eroi, nel libro, sono altri. La mamma, orfana, sofferente, come accadeva alle donne del tempo, per la perdita prematura di figli partoriti nell’amore, eppure forte e provvidente. Il papà, che faticosamente accetta di smettere gli abiti da “padre padrone” del sud, e diventa poco alla volta “padrone” della nuova situazione; i figli e le loro famiglie, che fanno successo e soldi in settori dei quali gli avi immigrati ignoravano persino l’esistenza, come la grande finanza speculativa. E i nonni, gli zii, i fratelli e le sorelle, tutti bravi lavoratori e “sistemati”. E poi i tanti amici e colleghi che l’autore ricorda con abbondanza di dettagli e riconoscenza.

Prof. Mario Mignone
E comunque Mignone non risulta interessato a scrivere di “eroi”. Gli preme ricercare un senso alla vicenda della sua famiglia, mirarla e ammirarla, con amore, ma soprattutto con una capacità interpretativa che metta a paradigma quanto loro accaduto in terra americana. Ne esce un giudizio positivo sui codici etici e comportamentali ereditati dai padri, in particolare con riguardo al senso della famiglia, della dignità, del dovere, della laboriosità, della responsabilità unita alla libertà individuale. Quel mondo arcaico che si trasforma, in più di mezzo secolo, in contemporaneità e attualità, quell’antropologia che nasce nella campagna del Sannio, sboccia nell’urticante rust belt dell’East Coast, matura nel fecondo recinto culturale di Stony Brook, conservano un segno di continuità che spiega gli eventi narrati da Mignone, rendendo il libro indispensabile a chi voglia penetrare l’esperienza immigratoria italiana in terra americana.
Quel segno è la solidità che la gente descritta, condivideva, e che la rendeva coriacea di fronte alle difficoltà da superare, all’affronto di ritrovarsi dago senza mai esserlo stato, al fare figli che, per la prima volta nella narrazione del clan, sarebbero stati così altri dai padri. Quella solidità, come fa capire Mignone, sta in radici non ancora recise: nella famiglia patriarcale, nel ruolo nascosto ma forte delle matriarche, nel cattolicesimo che è come un sangue invisibile che trascorre nelle vene (tutto accade grazie alla forza della “determinazione” umana, ma è consentito dalla “volontà di Dio”), nel senso persino inconsapevole di appartenenza a una storia senza eguali che finisce per sfiorare la classicità arcaica.
Non sorprende che, guardando ai nipoti e alla loro generazione, l’autore si auguri che, sulle orme di padri e nonni italiani, sappiano preservare, nel loro essere americani, “the resilience, the fortitude, the skills and the knowledge, the creativity, and the character to aim to be semi-gods”.