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September 11, 2015
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Migranti: Apocalypse Now, and Then…

James HansenbyJames Hansen
Time: 2 mins read

La fiera del commento sulla crisi migratoria volge all’apocalittico. Si insiste che “non ha eguali nella storia recente”, che “un paragone moderno non esiste.” Qualcuno arriva a tirare in ballo il tardo Impero Romano, quando “le popolazioni barbariche erosero i confini”. La visione, fortemente eurocentrica, non tiene conto del fatto che esempi moderni, anche per ordine di grandezza, non sono poi così rari.

Il caso più calzante per numeri e per intensità è quello seguito alla vittoria dei Viet Cong nella guerra conclusa con la caduta di Saigon nel 1975. L’esito del conflitto suggerì a tre milioni di abitanti del Vietnam e dei confinanti Laos e Cambogia di cercare altri lidi in gran fretta. Le destinazioni preferite erano Hong Kong—allora colonia inglese—Indonesia, Malaysia, le Filippine, Singapore e Thailandia.

I più disperati si mossero in barca, affrontando gli stessi pericoli dei poveracci di oggi, con in più i terribili pirati dei mari indocinesi che hanno mandato a picco moltissimi natanti dopo avere derubato i passeggeri e stuprato le donne. Circa 800.000 persone si sono salvate: meno della metà di quelle partite secondo stime accreditate.

L’esodo ha lasciato dietro di sé il termine “boat people”, diventato corrente in italiano dopo l’intervento degli incrociatori Vittorio Veneto e Andrea Doria e la nave appoggio Stromboli, che nell’estate del 1979 parteciparono alle operazioni di salvataggio portando in salvo 891 persone.  L’ondata iniziale dei profughi asiatici—arrivata a toccare i 56.000 arrivi al giorno—ha richiesto una decina d’anni per essere smaltita in Occidente. Oltre la metà è finita negli Stati Uniti e la maggior parte degli altri in Francia, Canada, Australia, Germania e il Regno Unito. In tutto, l’Occidente ne ha accettato 625.000.

Senza nulla togliere ai commentatori impegnati oggi in una comprensibile operazione di “sensibilizzazione politica”, ciò che sta succedendo in questi tempi non è una novità di assoluta portata storica ed è anche gestibile—nel caso qualcuno volesse farlo.

Quello che è diverso rispetto al tragico episodio indocinese è che allora c’era qualcuno disposto a farsi carico del problema—gli Usa, per un evidente fatto di “coda di paglia” dopo la sconfitta vietnamita— mentre fino a poco fa la reazione europea all’inondazione migratoria nordafricana e mediorientale è stata piuttosto caratterizzata dall’ “armiamoci e partite”… 

Qualcosa d’importante invece è uscito dall’accordo triangolare Germania/Francia/Italia degli ultimi giorni e la sua insistenza su “un’equa ripartizione dei rifugiati sul territorio europeo”. L’implicita sottolineatura che non si poteva più aspettare che Bruxelles si desse una mossa “unitaria” mette in evidenza la crisi dell’Unione come attore politico. In sé però l’azione è indice di vitalità, la prova che l’Europa delle nazioni è ancora in grado di agire se è proprio necessario. Ed è proprio necessario.

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James Hansen

James Hansen

Americano della West Coast, vivo in Italia da molti anni. Sono arrivato, giovane, nel servizio diplomatico USA come vice console a Napoli. Lì ho capito che “da grande” non volevo fare l’ambasciatore. Sono passato al giornalismo come corrispondente dell’International Herald Tribune e del Daily Telegraph, in seguito spostandomi “dall’altra parte della scrivania” come capoufficio stampa di Olivetti, di Fininvest e infine di Telecom Italia. Da tempo mi occupo di “diplomazia privata”, accompagnando grandi aziende italiane nelle loro avventure internazionali. È la diplomazia che mi immaginavo da ragazzo, con obiettivi più o meno chiari e i mezzi e l’autonomia per perseguirli. An American from the West Coast, I have been living in Italy for many years. I got here young, with the diplomatic service as the US vice consul in Naples. There I realized that, as a grown up, I didn't want to be an ambassador. I turned to journalism as a correspondent for the International Herald Tribune and the Daily Telegraph, and later on, I moved to the “other side of the desk” as chief of press for Olivetti, Fininvest and finally Telecom Italia. I deal with "private diplomacy", backing up large Italian companies in their international adventures. It's the diplomacy as I imagined it when I was young, with more or less clear goals and the means and autonomy to pursue them.

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