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October 13, 2014
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Colombo o no, gli italiani l’America l’hanno fatta per davvero

Riccardo GiumellibyRiccardo Giumelli
Time: 3 mins read

Questa volta, verrebbe da dire, un Visti da lontano (un po' un Visti da New York al contrario) posso farlo io. Cosa vediamo dall’Italia del Columbus Day? A prima vista nulla, perché nessuno ne parla. Si dirà che siamo alle prese con i fatti di casa nostra: la tenuta del governo sul Jobs Act (ma è proprio necessario chiamarlo così?), la città di Genova nuovamente in ginocchio per il maltempo, il terrore diffuso da Isis ed Ebola, le partite della nazionale. Perché occuparsi di qualcosa che riguarda un altro Stato, un altro popolo, anche se di italoamericani si tratta? Solo un articolo apparso sul Il fatto quotidiano ne ha discusso e anche bene. Per il resto, nella stampa italiana, silenzio assoluto. 

Sapevo delle polemiche su questa festa e ne avevo parlato in un articolo l’anno scorso, nel quale criticavo una ricorrenza troppo addobbata di simboli nazionali, troppo statocentrica e magari, nella mia idea, anche un po’ triste. Al tempo stesso pensavo a Colombo come simbolo di italicità piuttosto che di italianità, anche perché lui, e ne spiegavo le ragioni, italiano non era e non aveva idea di cosa fosse l’Italia, almeno in termini moderni.

Tuttavia, non immaginavo che si potesse pensare ad una sua riduzione simbolica: eliminare la festa nazionale, far passare Colombo come un assassino o ancora farla diventare la festa della minoranza indigena, come accaduto a Seattle. Il rito può essere anche noioso se ripetuto sempre allo stesso modo, può far allontanare le persone e soprattutto i giovani. Ma peggio del rito c’è la sua eliminazione definitiva perché con esso spariscono le ragioni e significati che vi hanno dato origine, sparisce la sua storia, la sua ragione d’essere ed in una società ammalata di presentismo si farà presto a sostituirla con qualche banalità modaiola. 

Incolpare Colombo è una scemenza semplificatoria assoluta. Farla diventare festa delle minoranze indigene altrettanto. Questa festa vuole ricordare, attraverso un personaggio proveniente dalla penisola italiana, l’importanza della comunità italiana negli Stati Uniti e il suo contributo sociale, culturale ed economico al paese. 

Molto di quanto scritto nell’articolo pubblicato su questo giornale che raccoglie le impressioni sul Columbus Day, mi fa’ capire il bisogno di riconoscere un’apparenza che trascenda quella esclusivamente statunitense, seppur nostalgica, seppur immaginata, seppur sognata. Non a caso i giovani che meglio conoscono l’Italia, perché partiti solo da poco, conoscendone le magagne, sfuggono al Columbus Day. Magari lo riscopriranno più avanti, quando avranno modo di rendersi conto che l’identità italiana è qualcosa di più della sua politica, e qualcosa di più della sua storia unificata e qualcosa che ci appare, come per magia, proprio standole lontano. 

So di essere una voce fuori dal coro ma ritengo che l’orgoglio per l’italianità, come molti sostengono, debba pensarsi non tanto nel nostalgismo stile Carramba che sorpresa, ma nell’orgoglio di una meravigliosa doppia appartenenza che noi definiamo, proprio per questa sua particolarità, italica. Siamo anche certi che quell’italianità che molti sentono, non sia quella reale vissuta in Italia, ma ce n’è un altra che non ha eguali: quella vissuta con orgoglio nella storia del paese ospitante, e cha ha la sua storia.

Non ci piace l’idea di un Columbus Day come una sfilata amarcord degli Alpini, con tutto il rispetto. Ci piace una nuova idea, un nuovo slancio, un nuova forza capace di integrare soprattutto i giovani. Potrebbe aprirsi alle altre minoranze che hanno contribuito a fare gli Stati Uniti. Ma la componente italica dovrebbe rimanere protagonista. 

E, anche se venissero a dire che in fondo Colombo l’America l’ha scoperta per caso, alla fine, chi se ne frega… perché gli italiani, l’America, l’hanno fatta per davvero. 

 

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Riccardo Giumelli

Riccardo Giumelli

Un aforisma che più di altri mi rappresenta è quanto scrisse Machiavelli, citando Boccaccio: “che gli è meglio fare e pentirsi, che non fare e pentirsi”. Come loro sono toscano, animo inquieto in cerca di porti per approdare e ripartire. Dopo gli studi in Scienze politiche, ho iniziato ad amare i libri, fare ricerca e scrivere, al punto da rimanere nell’Università, prima Firenze poi Trento. A Dijon e poi a Parigi, ho lavorato alla Camera di Commercio italiana e all’OCSE. Tornato in Italia, sono approdato a Verona, dove faccio ricerca e insegno. Intanto un matrimonio e due splendide gemelline. Mi occupo di sociologia, cultura e comunicazione. Tra tanti nuovi inizi e altrettanti epiloghi, una costante: ho sempre tifato Inter. Infatti soffro di stomaco.

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