Il diamante raschia il solco
Iniziale – nebule/gas
liquido fresco/ magma/condensamento […]
Sono i versi di Alfredo De Palchi, dalla sua poesia Le sacre du Printemps, ad aprire il reading organizzato all’Istituto Italiano di Cultura per presentare la raccolta dal titolo Poems of the italian diaspora – A bilingual anthology (Poeti della diaspora italiana: un’antologia bilingue). Cinquecentodieci pagine di raccolta, curate da Luigi Bonaffini e Joseph Perricone, cuciono insieme le opere di undici autori italiani semisconosciuti, emigrati all’estero e ormai radicati nelle loro terre di approdo, dagli USA, come nel caso di De Palchi, al Belgio, fino al Sud America. Giovanni De Santis, rappresentante dell’Istituto, ne introduce la lettura, ponendo l’accento sull’importanza di una letteratura presente, viva e influente oltre i confini italiani, al di là del tracciato già battuto dai critici, per riscoprire l’esigenza mai tramontata di trovare nuove chiavi, altri sentieri per l’esegesi letteraria.
Questo non è un libro sull’immigrazione, non ha pretese storiciste o sociologiche, si limita piuttosto a introdurre, tramite il confronto che lo stesso accostamento spalanca, la possibilità di un’analisi della poesia italiana, secondo le pieghe che ha potuto prendere nei territori ospitanti. Le differenze di stile e composizione rendono evidente l’affascinante commistione di italianità e radicatezza nel territorio d’esilio, lasciando osservare come il germe natale di una liricità italica possa colorarsi di sfumature diverse, pur restando se stesso. Peter Carravetta, della Stony Brook University, poeta e traduttore di se stesso, insieme critico dell’estetica italoamericana, carica questo aspetto parlando di territorializzazione, come di una nuova categoria attraverso la quale comprendere questi autori.
Tra gli altri, non mancano poeti dialettali, rimasti fedeli alla loro semantica d’origine, come il siciliano Nino Provenzano, del quale è stata letta l’opera Biddizzi scanusciuti. Una caratteristica di questi poeti, sottolinea Carravetta, è l’assenza della componente nostalgica. Salvo alcuni casi, non è una poesia malinconica quella che emerge dall’antologia, ma piuttosto l’ostinazione di una ricerca implacabile nell’affannarsi dietro al nescio quid caratteristico del linguaggio poetico. C’è un di più che rende tale la poesia e solo andandogli incontro, impegnandosi nel suo sondaggio, la lingua comune assurge a opera lirica. Se si dovesse trovare un leitmotiv dell’Antologia della diaspora, sarebbe proprio questa esplorazione nei meandri del linguaggio.
Un’ultima chiave di lettura viene offerta al pubblico dai relatori che sulla presenza di una culla comune per questi componimenti: il latino, che avvicina l’italiano, il francese, lo spagnolo non meno dell’inglese e resta da sostrato culturale che comprende e immerge in se stesso la bellezza delle opere cui ha dato luogo.