I cambiamenti climatici tornano sotto i riflettori. O almeno quella sarebbe la speranza di chi, con in prima fila Ban Ki-moon che ha personalmente proposto e promosso il vertice dei capi di stato e di governo che si terrà martedì 23 all’ONU, ha pensato fosse ora di dare una spinta alle trattative internazionali sulla riduzione dei gas serra (e misure complementari), per dare un futuro al protocollo di Kyoto e al pianeta stesso.
Sono 125 i paesi attesi all’ONU per martedì e, per la prima volta dal disastroso vertice di Copenhagen (eravamo nel dicembre 2009), i capi di stato e di governo sono chiamati a partecipare personalmente a un vertice sul clima. Il dibattito internazionale sui cambiamenti climatici – questo è l’assunto – non può essere lasciato nelle mani dei soli negoziatori: ha bisogno che i leader delle nazioni ci mettano la faccia e prendano impegni per tagli alle emissioni che possano diventare la base dell’accordo che la comunità internazionale conta di approvare durante i negoziati sui cambiamenti climatici in programma per il marzo 2015 a Parigi.
Il climate change, lo si è capito con estrema chiarezza proprio a Copenhagen, non è roba da fissati ambientalisti: è una questione politica ed economica e ha a che fare con la strada che la democrazia vorrà prendere in quello che non è il migliore dei mondi possibili, ma è quello che al momento ci ritroviamo per le mani. Ma il fallimentare vertice danese ha lasciato in eredità anche un’altra lezione: per quanto affare di stato, il cambiamento climatico non può essere solo affare degli stati. La politica deve essere coinvolta ma deve allo stesso tempo saper coinvolgere altri attori della società: in primis, e per ovvie ragioni, il mondo dell’industria, dell’imprenditoria e della finanza. Per questo al vertice di martedì arriveranno in gran forza rappresentanti di quei settori del business (energia in particolare) che sono parte del problema e che quindi devono essere parte della soluzione, come è stato spiegato nella conferenza stampa di presentazione del vertice a Palazzo di vetro. L’obiettivo, si è detto nella stessa conferenza stampa, è far capire che non si tratta più di dividersi la torta della sofferenza, ma di dividersi la torta delle opportunità.
In questa prospettiva la buona notizia sarebbe che, dai tempi di Copenhagen, molti paesi hanno iniziato a vedere gli effetti positivi della green economy e grandi investimenti si stanno muovendo nella direzione di un’economia più sostenibile. Sul tavolo delle opportunità c’è, prima di tutto, la discussione sul carbon pricing, il meccanismo che permettere di attribuire un prezzo alle emissioni e di conseguenza multare chi supera certi livelli e allo stesso scambiare emissioni alla stregua di azioni.
Ma a parte il fatto che bisognerebbe stabilire l’efficacia di un meccanismo che fa del problema emissioni una questione di multe e in generale capire se gli investimenti di cui sopra possano essere universalmente considerati progressi (Obama, tanto per fare un esempio, sta bene a dire – come è previsto che farà nel suo intervento al vertice – che gli USA negli ultimi anni hanno fatto enormi progressi nella direzione delle energie pulite… se tra le energie pulite include anche il gas di scisto estratto attraverso metodi di idrofratturazione idraulica che causano, tra l’altro, la contaminazione delle falde acquifere, abbiamo chiaramente un problema di definizioni), la questione più importane qui riguarda la scelta di modelli economici e di governo. Come ho già scritto a proposito di negoziati sul clima, prendendo a prestito una note frase di Einstein: non si può risolvere un nuovo problema usando la stessa mentalità che lo ha creato.
Si capisce quindi perché non sia così ovvio aspettarsi che gli stati possano accordarsi su una soluzione comune: a contrapporsi non sono semplicemente diverse opinioni su come vada affrontato il problema del riscaldamento globale, bensì modelli che hanno a che vedere con il come le Nazioni vogliano giocare sulla scena globale e globalizzata. Motivo per cui il vertice di New York promette di essere, soprattutto, una dimostrazione di massa di buona di volontà, aiutata, almeno nelle premesse, dall’azzeccata mossa del segretario generale che ha scelto di far coincidere il vertice con la vigilia dell’Assemblea Generale (senza la quale Ban Ki-moon avrebbe potuto sgolarsi quanto voleva a ricordare l’importanza delle questioni climatiche, ma difficilmente avrebbe avuto le massime cariche di 125 governi). Leader e rappresentanti di paesi grandi e piccoli arriveranno in parata al Palazzo di Vetro per portare i propri buoni (e meno buoni) propositi. La Cina e l’India hanno scelto di non partecipare con le più alte cariche dello stato, ma con dei rappresentanti addetti alle politiche sul clima. E considerando che fu proprio un blocco di paesi guidato da Cina e India a far arenare le trattative a Copenhagen, si tratta di un dettaglio non proprio incoraggiante. In ogni caso dal vertice di New York, avvertono dalle stesse Nazioni Unite, non ci si devono aspettare risoluzioni: si tratterà invece di tracciare la mappa verso Parigi.
Un momento di passaggio, quindi, in attesa di appuntamenti più importanti. Come al solito, le decisioni vengono rimandate. È la solita vecchia storia che ha segnato il percorso delle trattative sul clima e che si ripete fin dal protocollo di Kyoto: mentre il tempo passa, gli obiettivi che i governi si stanno ponendo vengono superati, prima ancora che i governi si riescano a mettere d’accordo, da previsioni di innalzamento della temperatura globale più alte degli obiettivi stessi. I governi stanno lavorando per limitare il riscaldamento globale ai 2 gradi celsius, ma gli scienziati ci dicono che con gli obiettivi stabiliti finora la temperatura terrestre si alzerebbe comunque di 3 o 4 gradi, ben al di sopra del limite di sicurezza. E tuttavia non tutto è perduto. Le soluzioni esistono e varrebbe la pena provarci prima che quei gradi diventino 5 e poi 6 e poi 7 e che gli obiettivi stabiliti dai governi diventino davvero irrisori rispetto al problema.
Se al Palazzo di Vetro a parole si annuncia un vertice epocale ma nei fatti ci si aspetta poco più di una dichiarazione di disponibilità, qualcosa di epocale sta invece succedendo fuori dal palazzo. La People’s Climate March che domenica attraverserà le strade di New York riunisce intorno ai temi del clima una costellazione di espressioni della società civile. Gli organizzatori si aspettano 500.000 persone, ma previsioni più conservative parlano di 200.000, con 1.100 gruppi, sigle e associazioni che supportano la manifestazione. Anche Ban Ki-moon, nell’ennesimo tentativo di riportare l’attenzione sul clima, ha detto che ci sarà. In centinaia di città in tutto il mondo ci saranno manifestazioni in contemporanea.
Il movimento ambientalista, negli anni dell’emergenza cambiamenti climatici, ha preso le caratteristiche di un movimento globale (e glocale), onnicomprensivo e in grado di mettere in discussione aspetti sostanziali degli assetti internazionali. Ha portato in piazza e nel dibattito mondiale temi e voci (basti pensare alle popolazioni indigene dell’Amazzonia o alle piccole isole minacciate dall’innalzamento dei mari) che difficilmente prima erano riusciti a trovare spazio. Idee come quella di giustizia climatica hanno chiarito che lo sfruttamento dell’ambiente è da considerarsi sfruttamento (punto) e messo in luce l’interconnessione tra politiche climatiche e di sviluppo, dove in entrambe le categorie esistono scelte etiche e scelte puramente utilitaristiche. Per chiarire: scelte giuste e scelte sbagliate.
A New York soffiano venti di Copenaghen. Fu lì che, in occasione di quella Cop15 che aveva alimentato tante speranze, ci fu l’ultima grande mobilitazione. In quel dicembre 2009 gli occhi di tutto il mondo erano puntati sulla conferenza dell’UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change, l’organismo dell’ONU deputato alle negoziazioni internazionali sul clima). Ma dentro il palazzo le trattative si bloccarono e fuori ci furono centinaia di arresti e scontri. Davanti all’ennesimo nulla di fatto, schiacciato dalle violenze scaturite dalla frustrazione delle aspettative deluse, a Copenhagen anche il vertice della piazza fallì. Il movimento ambientalista, così come il dibattito internazionale sui cambiamenti climatici, restò fermo in risacca.
Domenica 21 settembre quelle voci tornano a farsi sentire da una New York in cui è in programma una densa settimana di eventi: la New York Climate Week, appuntamento settembrino ormai tradizionale, quest’anno si annuncia particolarmente ricca, mentre centinaia di piccoli gruppi di attivisti hanno in programma iniziative specifiche per la settimana del vertice. I gruppi più radicali si sono dati appuntamento per lunedì 22 settembre davanti a Wall Street per manifestare contro le grandi compagnie che fanno profitti a scapito del clima e dell’ambiente. È attesa la partecipazione della scrittrice canadese Naomi Klein e ci si aspetta anche tensione con la polizia.
Le associazioni newyorchesi, dalle più grandi alle più piccole, si stanno preparando da mesi per questa settimana. Se il problema è globale, molte delle soluzioni sono locali e i tanti gruppi che lavorano da sempre sul territorio sanno che servono governi che, attraverso politiche di supporto a iniziative locali, siano in grado di favorire (e non ostacolare) il cambiamento dal basso. La società civile lo sa e non guarda più al vertice dei potenti della terra in cerca di soluzioni. Hanno intenzione di applicare la democrazia in un modo nuovo e, forse, più sostenibile. La piazza è pronta. Il palazzo meno.
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