Anthony Tamburri, direttore del John D. Calandra Italian American Institute della City University of New York, ha appena pubblicato un libro in cui sviscera un pezzo di letteratura le cui specificità sono state a lungo ignorate se non negate. Re-reading Italian Americana. Specificities and Generalities on Literature and Criticism (The Fairleigh Dickinson University Press – Series in Italian Studies, 2013), è un libro importante che, con approccio analitico e semiotico, mette insieme una serie di questioni e problematiche che riguardano la letteratura italo-americana o italiana-americana, come preferisce definirla Tamburri. Una vasta produzione letteraria che ha tardato ad essere riconosciuta nei suoi tratti etnici e che, pure, porta in sé l’estetica, i valori e i contenuti di due culture, quella di origine e quella di arrivo.
I nomi dal suono italiano sono tanti nella storia letteraria americana e, se alcuni si portano dietro un marchio indelebile di emigrazione, altri hanno un sapore italiano più sottile, eppure persistente. Nel suo libro Tamburri cerca di fare il punto su dove si trovano oggi la letteratura italo-americana e la coscienza che di essa hanno il mondo accademico come anche il pubblico generalista. Allo stesso tempo il libro vuole aprire un ragionamento su dove dovrebbero trovarsi quella letteratura e quella consapevolezza oggi, non nascondendo i fraintendimenti e i pregiudizi di cui finora quella produzione è stata vittima. Lo abbiamo intervistato per farci spiegare quali sono i meccanismi dietro quella che appare come una programmatica negazione di un pezzo di cultura a cavallo tra due continenti.
Qual è lo scopo con cui nasce questo libro?
È un lavoro che ha già radici in altri miei due libri pubblicati inizialmente in inglese. Uno è A Semiotic of Ethnicity, pubblicato nel 1998 e poi aggiornato per la traduzione italiana nel 2010 col titolo di Una semiotica dell’etnicità. L’altro è Re-viewing Italian Americana, del 2011, dedicato al cinema. Il nuovo libro è invece un re-reading della letteratura. Volevo fosse un libro di critica, analitico, ma che avesse anche un altro scopo: quello che in inglese si direbbe “prescripting”, ovvero dare dei suggerimenti su dove possiamo andare, sia in termini di scrittura che di lettura.
E come raggiunge questo obiettivo?
Il primo capitolo parla nel complesso della situazione culturale odierna della comunità italiano-americana. Parto da Cornel West che nel suo libro, Race Matters, dice che il problema della comunità afro-americana è che c’è troppo amor proprio e troppa poca ricchezza. Io dico che forse il problema della comunità italiano-americana è che c’è troppa ricchezza e poco amor proprio. E qui per amor proprio intendo prendersi la briga di imparare bene la storia degli italiani d’America e un poco anche quella italiana, in modo da poter capire meglio tutti i fattori dietro l’emigrazione storica.
L’altro tema significativo del libro – e le due cose vanno insieme – è la mancanza di filantropia culturale. Abbiamo tanti italiani-americani che danno soldi a ospedali e chiese. Per esempio è intitolato a Langone, fondatore di Home depot, uno dei più grandi centri medici degli Stati Uniti. Tanto di cappello, ma non abbiamo nessun esempio di questo tipo per quel che riguarda la cultura, intesa come cultura umanistica, cultura del libro. Non abbiamo cattedre sponsorizzate da americani di origine italiana dedicate a studi umanistici per quanto riguarda la cultura degli italiani d’America. C’è qualche cattedra per la storia italiana ma poco o niente sull’Italian-american. C’è la fellowship Tiro a Segno dell’NYU che ogni due anni porta uno studioso a New York. Poi ci sono 10 o 12 cattedre, ma solo due hanno l’espressione Italian-American studies nel nome. Sono la cattedra Inserra della Montclair State University e la Stony Brooks. È un numero bassissimo quando si pensa che una cattedra richiede un milione o due milioni di dollari. Dobbiamo quindi chiederci come mai la nostra comunità non dà soldi agli studi umanistici come ne dà ad altri studi.
Conoscendo la situazione italiana verrebbe da dire che non è un problema solo degli italo-americani, ma dell’Italia in generale. Sarà una questione culturale? Stiamo andando verso un maggiore pragmatismo?
Sì, è vero, però in Italia ci si aspetta che sia lo Stato a dare. Basta guardare la storia delle pubblicazioni dei libri in Italia. Una buona parte dei libri accademici e scientifici viene pubblicata con contributo da vari enti pubblici che coprono circa il 60 per cento delle spese per produrre il libro. C’è la pratica da parte del governo di sovvenzionare pubblicazioni accademiche. Ma qui non esiste. Negli USA ci si aspetta che tu non debba pagare per la pubblicazione di un libro in ambito umanistico, altrimenti vuol dire che il libro non vale.
Tornando al suo libro, nella seconda parte mette insieme un interessante campionario di opere italo-americane.
Sì, è una serie di letture di tre opere di prosa e tre di poesia. Infine c’è un lungo capitolo in cui faccio delle recensioni a diversi libri, andando da quello che io ritengo sia quello meno felice a quelli più riusciti.
Ma che cosa è questa letteratura italo-americana, ha dei tratti caratteristici? Quali sono?

Pietro Di Donato (1911-1992)
Innanzitutto la tematica. Come c’è una tematica latinoamericana o africana c’è una tematica, anche se abbastanza larga, prettamente italiano-americana. A volte anche lo stile, il linguaggio. Alcuni scrittori inseriscono delle parole italiane o italianeggianti, dialettali. In alcuni casi la narrazione rispecchia una sintassi italiana. E questo si vede in modo evidente nel grande romanzo della letteratura italiana-americana Christ in Concrete di Pietro Di Donato. È un libro in Inglese con una sintassi italiana. Se conosci bene l’Italiano, ti accorgi che il libro non è mal scritto come si era detto all’inizio, quando fu pubblicato, ma è invece un libro in cui la sua sintassi nella voce dell’autore è, come nel Verga dei Malavoglia, libero discorso indiretto. Non leggi soltanto la voce del narratore che sta al di sopra dei fatti narrati ma leggi anche i pensieri dei personaggi. Di Donato passa dalla terza persona impersonale alla prima persona, sempre però nella narrazione dell’autore. Le voci dei personaggi entrano all’interno del discorso narrativo.
Poi ci sono tanti altri romanzi di scrittori di origine italiana che magari a prima vista non sono romanzi italo-americani, ma, se si guarda con attenzione, si nota qualche riferimento, qualcosa che risuona, che sa di italiano.
Per esempio?
Il professor Fred Gardaphe nel ’92 aveva pubblicato un articolo in cui parlava di scrittori italo-americani visibili e invisibili e in questa seconda categoria aveva inserito Don De Lillo. Tutti gli diedero del matto, dicendo che De Lillo non aveva nulla di italiano se non il nome, che era americano al cento per cento. Lui invece sosteneva che alcuni personaggi secondari e alcuni riferimenti richiamassero l’Italia. Poi quando nel 1997 De Lillo ha pubblicato Underworld che è il suo romanzo italo-americano Gardaphe è stato vendicato. Ma già nei suoi libri precedenti, ogni tanto appaiono dei riferimenti dal sapore italo-americano.
Oppure, nel mio libro ho inserito l’autobiografia di Luigi Barzini. Se io dovessi dire a un italiano che Luigi Barzini è un italo-americano si metterebbe a ridere. Però lo dice lui stesso. Nel ’77 quando pubblica O America When You and I Were Young lui si riferisce sia a se stesso che a suo padre come immigrati. Erano immigrati benestanti che addirittura portarono dei domestici con loro quando il padre fu mandato qui come corrispondente del Corriere. Ma erano anche questo, immigrati.
Davanti a un libro italo-americano, l’esperienza di lettura è diversa a seconda di chi lo legge e del suo grado di italianità o americanità?
Questo è vero per tutti i libri. Un termine filosofico con cui viene descritta questa cosa è pre-giudizi, per dire che quando leggiamo un libro si instaura un dialogo automatico tra il mio bagaglio culturale e il libro. Per esempio tu, essendo italiana, donna e di una generazione diversa dalla mia, darai una lettura del libro differente da quella che posso dare io. Ci sono punti in comune, ma altre cose sono condizionate dalle nostre esperienze. Sono tutte letture valide, a patto che comunque si rifacciano al testo, senza imporre la propria lettura sul libro.
Cosa possono imparare gli italiani dalla letteratura italo-americana?
La nostra storia emigratoria non è mai stata oggetto dell’istruzione italiana. In un arco di 100 anni 27 milioni di italiani hanno lasciato il Paese. Dovremmo chiederci come mai.
Nel 1901 Eugenio Balzan seguiva gli emigranti italiani che andavano in Canada e mandava le sue corrispondenze al Corriere quasi quotidianamente. Nel 2011 due giovani giornalisti italiani hanno scritto Lampedusa, cronache dall’isola che non c’è. Dopo aver letto i pezzi di Balzan, il libro di Laura Bastianetto e Tommaso Della Longa, pur se romanzato, ci rivela che le storie sono le stesse. Forse la coscienza collettiva, che esista o non esista, svilupperebbe una maggiore pazienza con il problema dell’immigrazione se fosse consapevole della nostra storia. Le stesse situazioni che ci sono oggi qui o in Italia, dove la manodopera, per esempio agricola, è tutta straniera, c’erano anche allora e al tempo la manodopera era costituita da immigrati italiani.
Allo stesso tempo però anche noi americani di origine italiana dobbiamo conoscere meglio anche la storia italiana, cercare di parlare la lingua e soprattutto varcare la soglia della nostalgia che può essere controproducente, perché ci blocca.
La nostalgia è spesso presente nei libri di letteratura italo-americana. Ritiene che costituisca un limite che ne sminuisce la qualità letteraria?
A volte. Nei libri migliori no. Mario Puzo nei suoi primi tre romanzi, che sono bellissimi, parla di emigrazione ma non c’è nostalgia. Quando si indugia nel passato, sì, può essere un limite.
Direbbe che la letteratura italo-americana sconta pregiudizi da parte degli italiani e /o da parte degli americani?
Forse c’è pregiudizio da parte degli americani. Se c’è anche da parte degli italiani, a mio avviso non viene dalle letture perché la letteratura italo-americana non è conosciuta affatto. Nel primo capitolo del mio libro faccio riferimento alla rivista Acoma che è la rivista italiana di americanistica e studi nord-americani per eccellenza che ha dedicato una sezione alle letterature degli Stati Uniti, ma non fa nemmeno un nome di autore di origini italiane. Questo nel 2005, quando John Fante era già considerato un dio sceso in terra. Il professore di americanistica in Italia sa ben poco di letteratura italo-americana. Non so il perché, la mia valutazione non è scientifica ma mi viene da dire che forse il mondo italiano si vergogna della sua emigrazione e non ne vuol parlare. É come se non esistesse, quando poi negli USA, già dal 1880 e fino al 1940, esisteva tutto un canone di letteratura in lingua italiana. Infatti Francesco Durante, nel volume 2 di Italoamericana, del 2005, descrive tutto questo mondo letterario e giornalistico italiano.
Qual è il libro pietra miliare, quello che non può mancare nella biblioteca di chi si interessa di studi italo-americani?
Tra i romanzi ne nominerei due: Christ in Concrete di Di Donato e Umbertina di Helen Barolini. Nella non fiction invece l’unico, purtroppo fuori stampa, è di Rose Basile Green, The Italian-American Novel. A Document of the Interaction of Two Cultures, primo libro, del ’74, a parlare di letteratura italo-americana.
E il preferito di Anthony Tamburri?
Per la non fiction nominerei due antologie, una è The Dream Book di Helen Barolini che raccoglie scritti di donne italo-americane e l’altro – sarò un po’ autoreferenziale – è il mio From The Margin. Writings in Italian Americana. Tra i romanzi senza dubbio The Fortunate Pilgrim di Mario Puzo, pubblicato in italiano con il titolo Mamma Lucia.