Il calendario impietoso segna anche quest'anno la fine delle festività natalizie. Così, insieme a quel velo di malinconia che per me accompagna il giorno dell'Epifania, dando appuntamento all'anno prossimo all'albero di Natale, da riporre nell'armadio insieme alle candele rosse e alla calza della Befana, arriva il tempo dei bilanci.
Dal mio trasferimento a New York sono passati quattro anni, per quattro volte sono voluta tornare in Italia per le vacanze, ma rispetto ad allora sono cambiate tante cose, tante sensazioni. O per meglio dire, si sono evolute nel tempo. E adesso, come succede a molte persone che vivono all'estero, mi trovo a fare i conti con una sorta di sdoppiamento: il contrasto irrisolto tra la gioia di rivedere i miei cari e gli amici di sempre, e trascorrere le feste con loro, ma allo stesso tempo quel senso di smarrimento nel lasciare quella che è diventata la mia nuova città e la voglia di trascorrere anche questi momenti nella mia casa newyorkese. E' un doppio binario, che ogni anno sempre di più mi scopro ad affrontare con sentimenti differenti.
Vivere all'estero ti cambia, da molti punti di vista, e se da un lato quando torno in patria mi capita di sentire l'Emilia, la mia terra di origine, sempre un po' stretta, questa dall'altro rappresenta un rassicurante punto di riferimento, una coperta di linus che con i suoi ritmi più lenti e ovattati mi fa sentire subito al sicuro.
Così, all'inizio rientrare in Italia era indiscutibilmente sinonimo di 'ritorno a casa', nel calore di una realtà assai distante da quella ancora avulsa che era la New York dei miei primi anni, città piena di stimoli, a volte difficile e spesso entusiasmante, ma ancora non mia. Insomma, i sentimenti erano ridotti ai minimi termini nel lasciare la City, una volta sull'aereo tutti i pensieri erano rivolti ad abbracciare mamma e papà, incontrare gli amici, e tornare alle abitudini di sempre, anche se per pochi giorni.
Poi, mano a mano che passava il tempo, la Grande Mela è diventata a modo suo 'casa', ed è da allora che è venuto il difficile. Perché è come essere divisi a metà, in una sorta di limbo, con la voglia di tornare, ma anche il dispiacere di partire, con un piede da una parte e uno dall'altra, con la testa di qui e il cuore di là.
Del resto, lo dicono anche gli esperti: la vita degli emigranti è scandita da fasi ben precise. Lo affermò per la prima volta l'antropologo Kalervo Oberg alla fine degli anni Cinquanta: fu lui a coniare per primo il termine 'shock culturale', causato dall'ansia che deriva dall'allentamento di tutti i nostri legami familiari, mentre si vive e si lavora in un ambiente straniero. E prevede alcune fasi ben precise: la luna di miele, il rifiuto, la regressione, e l'accettazione. Ma anche questo paradigma accademico delle quattro categorie potrebbe rivelarsi, alla luce delle singole esperienze, troppo stretto.