Colonna sonora: Tu vuò fa' l'Americano, Renato Carosone
“È incredibile il modo in cui parli con le mani, tutti questi gesti che fai accompagnano e arricchiscono quello che dici” – osserva il tizio newyorchese con cui mi sono fermata a chiacchierare fuori da un bar nel Lower East Side. “Eh, sì – rispondo io – è molto italiano..”. Già, molto italiano.
Qualche sera prima parlavo con un amico americano che ha passato più di un anno in Italia e che notava: “Non hai per niente dei modi di fare italiani. Mentre parlo con te mi dimentico addirittura che sei italiana”. Addirittura?
Alcune settimane fa, in Italia, a una cena con amici dei miei genitori, un lontano cugino mi ascoltava parlare incuriosito, finché a un certo punto mi ha detto: “Voi che vivete in America, soprattutto quelli che vivono a New York, sviluppate un ritmo tutto vostro, veloce, sincopato e quasi distratto, comunque completamente diverso da quello di chi è rimasto qui”. Davvero? Non ci avevo mai fatto caso, almeno non su me stessa.
Suppongo di essere di fronte alla vecchia questione con cui ogni emigrante finisce prima o poi per dover fare i conti, in modo più o meno cosciente: l'identità. Non essere né carne né pesce o essere sia carne che pesce, a seconda dei punti di vista. Qualche anno di vita all'estero ti cambia, è inevitabile. Ma ti cambia come? Chiederselo forse è un esercizio sofistico, sarebbe meglio lasciarsi andare e seguire la corrente. Ma se non mi faccio domande cosa ci scrivo su questa rubrica?
Ricordo che, fin da bambina, quei parenti che d'estate attraversavano l'oceano per venire a trascorrere qualche settimana nel paese natio, mi facevano curiosità. Li trovavo strani. Non solo perché avevano abitudini diverse e avevano le grandi metropoli americane negli occhi e nel cuore, ma anche perché era come se sapessero qualcosa che io non sapevo, come se avessero sviluppato un loro particolare modo di stare al mondo, seppure forse inconsapevole. Avevano dei modi di fare e di parlare diversi. Non era solo la mescolanza di parole italiane e americane, quelle buffe trovate come “crossare la strada” o “guidare il carro”, ma era qualcosa nella ritmica del discorso, nelle pause e negli attacchi, nel modo di vivere gli spazi e le relazioni con gli altri. Una sorta di costante estraneità, un distacco leggero, un non coinvolgimento che li faceva sembrare diversi, un poco bizzarri, quasi dissociati. Mi viene in mente una frase del Goethe di Viaggio in Italia: “In ogni separazione c’è un germe latente di follia”. Che sia questo? Che sia quella separazione a renderci tutti un poco folli, stramboidi, coloriti?
Vivere all'estero significa, almeno all'inizio, convivere con un continuo senso di estraniamento e non appartenenza. Fosse anche solo per la lingua che, anche quando diventa familiare, resta sempre una lingua di cui non abbiamo un vissuto e un'esperienza paragonabile a quelle dei natii e di cui quindi dobbiamo sforzarci per capire le sfumature di significato. Questo sentirsi altro ti abitua alla curiosità, ti fa vivere in un perenne stato di attenzione, con le antenne dritte a captare, a cercare di capire le abitudini, i modi, gli usi, i significati dell'altro. Ma allo stesso tempo resta di sottofondo una sorta di rassegnazione alla non comprensione (dell'altro quanto da parte dell'altro), un'abitudine a lasciarsi andare a situazioni su cui non si ha un completo controllo. Ed è forse per questo che si finisce per sviluppare una grande capacità adattiva, l'abilità di trovarsi uno spazio anche dove uno spazio per te non era previsto. E poi c'è la mancanza, la nostalgia, il senso di irrisolto e di incompletezza: ti manca qui quando sei lì, ti manca lì quando sei qui.
Siamo strane bestie noi expat, sempre incomplete, sempre a metà. E però quella metà è una metà di due identità. E allora forse non ci manca niente: è solo che non siamo unità, che la nostra identità non è una e sola, ma è fatta di aspetti diversi e pezzi di due diverse realtà. È nella differenza, nell'alterità come condizione esistenziale, che sta la nostra identità. C'è poco da fare: siamo dissociati, siamo pervasi da quella follia della seprazione di cui parlava Goethe e che, per struggente che sia, ha anche i suoi vantaggi –ai pazzi si perdona tutto.