Se mai ci fosse una classifica di ciò che è più inumano in una guerra, il primo posto spetterebbe alle immagini dei volti terrificati dei bambini. È difficile raccontare eventi bellici senza esserne emotivamente coinvolti.
Se nei primi giorni del conflitto quel video del bambino che cammina da solo, singhiozzando e con solo un sacchetto di plastica in mano, verso Przemyśl in Polonia, o la foto di quella giovane donna incinta, trasportata fuori dall’ospedale di Mariupol’ mentre si sorregge la pancia coperta di sangue, ci provocavano un moto di rabbia e frustrazione, le settimane successive, con le immagini del massacro di Bucha, i missili sui civili in fuga, alla stazione di Kramatorsk, ci ricordano perchè nel vocabolario esiste il termine macellaio.
Una settimana dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, Eleonora Giuliani, reporter di guerra che in passato ha coperto altri conflitti per Il Giornale, ed oggi lavora come freelance, si è recata in Polonia e da lì è entrata in Ucraina per raccontare con una serie di immagini raccolte in tre settimane di reportage, la distruzione, la rabbia e l’orgoglio di persone che ad oggi si sono rivelate il più clamoroso errore di calcolo di Putin.
Quello che segue è la foto testimonianza dei giorni passati tra i profughi ucraini, i viaggi, attraverso i corridori umanitari, per raggiungere le zone intorno a Kyiv dilaniate dai bombardamenti russi. Eleonora Giuliani è entrata in Ucraina con una troupe polacca impegnata nella realizzazione di un documentario sulle donne giornaliste negli scenari di guerra. Durante la sua permanenza in Ucraina e Polonia ha partecipato anche ad operazioni di volontariato nella distribuzione di beni di prima necessità alle donne e bambini in fuga.

Eleonora, ci racconti come sei riuscita ad entrare in Ucraina?
“Da Varsavia ho preso un autobus che arrivava fino a Leopoli. Poi da Leopoli c’era un treno notturno che porta a Kyiv.”
Quanto è stato difficile raggiungere i luoghi dove hai iniziato il tuo reportage? Tu sei arrivata in Ucraina il 12 marzo, quando l’invasione russa era alle prime fasi e non si era ancora arrivati alla completa devastazione a cui assistiamo oggi…
“Alla stazione ho incontrato il mio contatto, un collega polacco, e insieme abbiamo raggiunto la città di Vasyl’kiv, a circa 70 km a sud di Kyiv. La situazione era già abbastanza tesa.”
Cos’hai trovato una volta a Vasyl’kiv?
“Mi sono ritrovata a vivere con dei volontari ucraini. Si occupavano di recuperare persone ferite o intrappolate nelle zone circostanti a causa di bombardamenti. Tra i loro compiti c’era anche la distribuzione di viveri, armi, e acqua in vari luoghi nella città e facilitare la fuga dei residenti attraverso i corridoi umanitari, quando era sicuro percorrerli. Questi uomini e donne facevano avanti e indietro tra Kyiv e Leopoli ogni due giorni. Per quanto possibile ho dato anche io una mano. Aiutavamo quelli che volevano andare in Polonia. Erano stati allestiti diversi punti raccolta dove madri con i loro figli, anziani, i maschi oltre i sessant’anni aspettavano in fila il loro turno. Andavamo a Kyiv e la sera tornavamo a Vasyl’kiv. Una volta al sicuro, i furgoncini tornavano indietro portando dentro l’Ucraina viveri, armi, medicinali.
Qual è stata la situazione o l’incontro con questi civili che ti ha colpito di più?
“C’è un episodio in particolare che è fisso nella mia mente. Mi trovato a Łódź, Polonia, c’era un anziano, avrà avuto forse ottant’anni, se ne stava seduto sul ciglio della strada a chiedere l’elemosina. Si vedeva che doveva essere stato una persona distinta, aveva un campanellino in mano e ogni volta che qualcuno gli offriva l’elemosina lo faceva scampanellare. Non so perché ma per qualche motivo questa immagine mi ha colpito. Si resta con il cuore in gola davanti a scene del genere, vedi sempre e comunque la decenza, l’orgoglio in queste persone. Pensa a quest’uomo, ha dovuto lasciare la sua città, e l’unica cosa in suo possesso ere quella campanella. Abbiamo incontrato bambini in fila con le loro madri, per prendere qualche abito pulito. Nei loro occhi leggevi l’imbarazzo, non avevano niente, fuggiti di corsa con quello che avevano indosso. Li vedevi stare in piedi, un po’ in disparte perché si vergognavano di dover chiedere una maglia pulita. Sono persone che fino al giorno prima avevano una vita normale, andavano a scuola, in palestra, alle feste di compleanno.
Come glielo spieghi ad un bambino di nove anni che la guerra gli ha portato via tutto? Che l’amichetto magari è stato ucciso sotto un bombardamento? Come glielo spieghi che molto probabilmente non vedranno più il padre? Quelli che riescono a raggiungere la Polonia sono in uno stato tale di shock, che, quando parli con loro, capisci che fanno ancora fatica a razionalizzare quello che sta succedendo nella loro patria. Li vedi questi rifugiati, incapaci di metabolizzare la rabbia, il panico. Quello che però colpisce di più quando stai in mezzo a loro, è vedere il loro coraggio, donne che si sono improvvisate soldatesse senza alcuna esperienza pur di difendere la loro libertà. Mi è capitato di parlare con una ragazza a Vasyl’kiv che fino a qualche giorno prima lavorava come veterinaria e adesso è in strada a fare la volontaria, mettono a rischio la propria vita pur di salvare gli altri civili. Ogni giorno queste volontari si danno da fare per procurare ad esempio le medicine essenziali per i bambini, o i più anziani. Devo dire che tante famiglie hanno preso la decisione di rimanere perché non hanno voluto lasciare padri e mariti indietro.
Anche se sono commenti isolati, c’è chi dice che il presidente Zelenskyy avrebbe dovuto cedere immediatamente ai russi. Qual è lo stato d’animo che hai percepito in quei giorni in Ucraina?
“Gli ucraini sono un popolo patriottico. Hanno visto che cosa ha significato vivere sotto l’Unione Sovietica. Quando nel 2017 mi recai nel Donbass, trovai una situazione economica molto arretrata. Nessuno in Ucraina pensa che bisognasse arrendersi. Lì, come in Polonia e Lituania ancora oggi si percepisce il timore dell’ombra russa. L’aggressione all’Ucraina non è stata una sorpresa, in quelle regioni vivono sempre con il pensiero che qualcosa del genere sarebbe potuto accadere prima o poi.”