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La Sicilia dei Florio, dall’ospitalità alla zarina di Russia alle corse d’automobili

Storia di una famiglia di imprenditori che da Palermo seppe creare molti ponti di affari e cultura con il resto del mondo

Valentina DellAirabyValentina DellAira
La Sicilia dei Florio, dall’ospitalità alla zarina di Russia alle corse d’automobili
Time: 7 mins read

L’epopea dei Florio è un affresco avvincente che affonda le sue radici nel Regno delle Due Sicilie in cui Paolo e Ignazio, calabresi di Bagnara, decisero un giorno di attraversare il Tirreno stabilendosi  a Palermo, per dare una chance alla loro  attività di feluche; la loro discendenza arriverà ad abbracciare un secolo intero e la Palermo Liberty, che con il suo Modernismo classicista ebbe un ruolo apicale nell’Art Nouveau europea.

La Fonderia, i Piroscafi, il capitale di maggioranza della Società di Navigazione Italiana (S.N.I.) una delle più grandi flotte di navigazione d’Europa, la Compagnia Palermitana di Assicurazioni Marittime, le Tonnare, le Cantine di Marsala, le Ceramiche, hanno posto  i Florio, dai primi anni dell’Ottocento su un podio incontrastato e la Sicilia insieme a loro, collocata in una dimensione eurocentrica di cui non avrebbe mai più goduto. E’ storia gattopardesca quella dei lussuosi balli  in cui le dame della Trinacria sfoggiavano i più vistosi monili e gareggiavano nell’ostentazione di abiti dai tessuti pregiati, ma meno superficialmente, il Leone bevente della famiglia calabrese dei Florio, seppur affascinato dallo sfarzo e dalla  mondanità, aveva  lo sguardo e gli intenti  volti al divenire imprenditoriale.

Sin dall’epoca di Vincenzo Florio Sr, il germe degli affari e del loro sviluppo nel futuro attestava la lungimiranza dell’operato industriale di una famiglia che non negò mai  quel sano slancio di  generosità verso la collettività, testimoniata da ampie elargizioni, pubbliche e private, in un tessuto sociale segnato da severi divari socio-economici all’interno di un territorio stremato dagli stenti, dalle pandemie e  che oscillava perennemente fra  fremiti di protesta ed abbrutimento nella rassegnazione. In queste varianti sociali, lo sviluppo economico dei Florio cresceva esponenzialmente e dai Matarazzari, simbolo embrionale delle attività commerciali, il sogno era quello di rendere Palermo, la “Perla del Mediterraneo” e di certo, i Florio, quell’aspirazione non la lasciarono ad ammuffire nel cassetto.

Ecco che, per esempio, a metà Ottocento, un’imponente rappresentanza della Corte imperiale russa si trasferì nella dimora all’Olivuzza, insieme alla zarina, invitata in Sicilia in seguito alla grave depressione dovuta alla perdita di una figlia. La permanenza fu molto apprezzata dalla consorte dello zar Nicola I, Alexandra Fedorovna, la cronaca del tempo narra di visite al Duomo di Morreale e dello stupore ammirato  verso la Conca d’Oro ed i panorami della lussureggiante Palermo dei tempi, in cui il paesaggio marino dell’Arenella dalle terrazze della gotica Quattro Pizzi del Giachery, colpì a tal punto la sovrana, che con il placet dell’ospite Florio, ne fece ricostruire una copia nella residenza russa di Peterhof.  La madre dell’ultimo imperatore Nicola II, tornerà dopo un decennio nella residenza all’Olivuzza, a testimonianza del profondo legame culturale ed economico sancito fra Pietroburgo e Palermo.

La residenza nella Palazzina dei Quattro Pizzi all’Arenella, Palermo

I Florio avevano creato molti ponti con il resto del mondo grazie ai numerosi  viaggi d’affari, crociere di piacere, escursioni culturali; non stupiscono, in tal senso, le intese con il finanziere Rothschild, di cui divennero addirittura agenti. La loro inclinazione ai contatti internazionali, squarciò nella società siciliana della facoltosa borghesia e dell’alta aristocrazia, un nuovo approccio verso le realtà straniere.

Nonostante il propagarsi del brigantaggio, in seguito all’Unità d’Italia, Marsala continuò a rappresentare un’isola felice ed il Baglio Florio ebbe riconoscimenti in esposizioni nazionali ed internazionali. In questo continuo attivismo imprenditoriale e culturale senza limiti, la figura che fra le altre emerge per l’assennato anticonformismo e per il genio variegato è quella dell’accattivante Vincenzo Florio che nasce nel 1883,  ed è destinato ad ergersi a fulgido mentore creativo della sua famiglia, per quella sua continua capacità feconda, per quella visione atemporale e policroma della vita e per la sua mitica passione per le competizioni sportive, di  cui ci ha lasciato tracce indimenticabili.

Forse tutto nacque da un  triciclo a motore ricevuto in giovane età dal fratello maggiore Ignazio Jr, che aveva sposato, Franca Florio, la  “regina di Palermo”, donna di sangue blu colta ed intelligente, musa di Boldini e  del Vate; ma probabilmente Vincenzo quel fuoco lo possedeva per indole, e con i motori accese di brio  le sue giornate nella residenza dell’Olivuzza e nelle vie di una Palermo che aveva il primato dell’illuminazione elettrica sul resto d’Italia e sfavillava della mondanità della Belle Epoque, ma che accennava già ad un impoverimento e ad una crisi economica in seguito all’Unificazione nazionale. Il brivido della velocità s’impossessò di Vincenzo Florio sin da quegli anni di giovinezza, in cui la sua famiglia si prodigava in  finanziamenti di opere pubbliche, memorabile quella del neoclassico Teatro Massimo Vittorio Emanuele del Basile, tempio della lirica italiana, fra i più grandi d’Europa.

Una immagine dalla gara automobilistica chiamata la targa Florio

Quei lustri furono scenari di grandi personalità internazionali nella Palermo del tempo, di poeti, compositori, imprenditori, banchieri, rappresentanti di Case Reali che si alternarono nel fulcro novecentesco  delle crescenti attività  di Ignazio Florio, fondatore della storica rivista “L’Ora”, un investimento identitario quello, spesso osteggiato dai poteri forti, ma prepotentemente affermato fra le riviste in campo nazionale.

Intenro della Palazzina dei Quattro Pizzi all’Arenella, Palermo

L’avvento dell’industrializzazione attraverso lo slancio  imprenditoriale delle altre dinastie egemoni in Sicilia dei Whitaker, Ahrens, Ducrot, Giachery, vide un Vincenzo poco più che adolescente, ideatore della Targa famosa nel mondo che prese il suo nome. Cresciuto fra Eaton e Parigi, esteta ed  amante dell’arte in tutte le sue molteplici sfaccettature, armonizzò le Arti con il suo guizzo sportivo, miscellanea che lo rendeva irresistibilmente affascinante. Fu nella sua residenza palermitana, il “pensatoio” dell’Olivuzza, lontano dalla vita mondana  che ideò la “Coppa Panormitan di Automobili” e  da lì l’idea di una competizione nelle polverose ed improbabili “trazzere” madonite fu un attimo. Nell’autunno parigino  del 1905, al cafè  Maison Moderne con i vari Desgrange, Rigal, Le Blon, Pablot, Faroux, Merisse , commissionò all’amico Lalique il premio del vincitore della prima edizione della Targa Florio, nel ricordo della Targa Rignano che Vincenzo aveva vinto a 19 anni, superando Lancia e Storero.

L’evento automobilistico  appariva come una pièce teatrale con una scenografia profondamente siciliana, in cui tribune e  buvette  avvolte  dalle zagare profumavano di agrumi e di essenze provenienti dai profumi delle eleganti gentildonne che aggraziavano un parterre prevalentemente maschile, se non fosse che Vincenzo Florio, uomo di ampie vedute, puntò avallandone  ed incoraggiandone la presenza, su una figura femminile di spicco, la cecoslovacca Elisabetta Junek, ancor oggi  uno degli esempi più luminosi di guida femminile.

Gli influssi multiculturali dell’esistenza di Vincenzo, le sue frequenti permanenze nelle capitali europee, le sue frequentazioni acculturate, ne fecero un visionario proiettato nel futuro, che considerava le nuove generazioni di cui amava circondarsi, linfa energetica  ed antidoto allo scorrere del tempo. Vincenzo Florio ideò a Palermo un evento aeronautico in cui ebbe la capacità di coinvolgere i più grandi aviatori del tempo, come Fisher e Weiss che animarono i cieli siciliani e la spianata dei Valdesi.

Gli anni dopo il disastroso terremoto di Messina, che vide i Florio come d’abitudine attivi nel sostegno alle popolazioni colpite, preannunciarono l’inizio della fine del potente impero dei leoni siciliani, che cedettero l’Ora e dovettero rinunciare all’Olivuzza;  ma quelli,  furono anche i tempi che segnarono la vita sentimentale di Vincenzo, che incontrò la prima moglie, Annina Alliata di Montereale, bellissima ed affascinante, evocatrice della classe appartenuta alla madre del Florio, la nobildonna Giovanna D’Ondes Trigona, ma che lo lasciò vedovo e sgomento troppo presto, pochi anni dopo il matrimonio. La Grande Guerra mutò il clima sociale e Palermo subì una pesante decrescita, solo in seguito alla fine del conflitto Vincenzo Florio ritrovò l’attivismo che lo contraddistingueva ideando l’Automobile Club di Sicilia. Accanto a lui, in quegli anni, l’eclettica ed ammaliante francese Lucie Henry, musa dei pittori degli anni Venti, appassionata di moda e d’arte, abbagliò il Florio, che la accolse amorevolmente, insieme alla sua bambina, nell’appartamento parigino di Place Vendome e nel suo cuore. Lucie amava dipingere ed i brani di Cole Porter , amico degli amanti, fece da colonna sonora ad una storia d’amore e di passione che si alimentava nella condivisione delle affinità culturali e degli interessi, che condivisero intensamente, coronando il loro sentire alla Tonnara Arenella, in cui la sposa indossò un abito disegnato da lei stessa. Affrontarono insieme con la dignità e l’eleganza che contraddistinguono le  maniere di certe personalità di un’epoca oramai lontana, il crollo finanziario, in cui tutti i loro beni vennero venduti e rischiarono di perdere fra essi La Tonnara, la stessa che li vide suggellare il loro intramontabile sentimento.

Tutti coloro che avrebbero potuto attutire il fragoroso declino di una Famiglia che tanto aveva dato in termini culturali ed economici alla Sicilia intera, voltarono le spalle a chi un tempo aveva spalancato loro le porte delle  residenze private  e del loro fervido e fecondo mondo. Fu l’amore di Lucie a salvare l’ultima proprietà di Vincenzo e la Palazzina dei Quattro Pizzi, divenne il loro buen retiro, un rifugio dalla malinconia del fato, un’oasi in cui dedicarsi alla pittura, ispirata dall’affaccio delle terrazze della tonnara sul quel tratto di mare che abbraccia Capo Zafferano e si sospende fino al parco di Villa Igea, in cui il Florio mescolava emozioni futuriste, cubiste, naif,  che poi riproduceva nei vari materiali che gli capitavano sotto mano; in quella sede fondò una  piccola industria di Bitter, creandone lui stesso il marchio.

La sua vita si spense abbracciata dagli affetti più cari, dell’adorata Lucie, del nipote Cecè Paladino Florio con la sua amata Silvana. Le memorie di Vincenzo Florio, della sua fulgida Famiglia di Senatori del Regno, vivono  oggi nella passione attiva di Chico Paladino Florio, che con la consorte Ana Paula, fa rivivere l’inestimabile archivio di Casa Florio all’Arenella, donando il dovuto soffio di vita alle innumerevoli testimonianze di una stirpe che sognava una europeizzazione dell’intera Sicilia, di questa terra sempre in bilico, fatta di un alternarsi infinito di luce ed ombre, di aneliti di libertà ed asservimenti, ma che attraverso le intuizioni dei Florio, è riuscita per un secolo a stare al passo con il progresso del resto del mondo, catalizzando cultura, investimenti e capitali e non solo sfavillii e mondanità, in una voglia di riscatto da quegli stereotipi antimeridionali che hanno mortificato e mortificano la Sicilia relegandola a margini che non merita. E’ per questo e per tanto altro ancora che  i Florio, con la loro illuminata e caleidoscopica visione imprenditoriale, culturale ed esistenziale, rappresentano le radici di una storia ruggente, patrimonio di tutti, che aspetta di essere riscritta. 

                                                                                        

                                                                                                                           

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