Da primo cittadino degli ultimi a sindaco sospeso. Prelevato da quei vicoli che erano tornati a brulicare di vita, di storie vicine e lontane, di progetti per un futuro che non sembrava più un’utopia in una terra che inaridiva a vista d’occhio. Prima le manette, poi il “confino”. Senza nessun processo in mezzo.
Dopo mesi dall’inizio delle vicende giudiziarie che ne hanno travolto l’impegno a Riace, Domenico (per tutti Mimmo) Lucano non può ancora rientrare nel borgo calabro che ha reso celebre in tutto il mondo quale modello d’accoglienza e d’integrazione possibile. Sebbene la Cassazione, cui ha fatto ricorso, lo abbia riabilitato rispetto ai principali capi d’accusa che gli sono stati mossi (qui le motivazioni depositate il 2 aprile), la palla passa ora di nuovo al tribunale del Riesame, che deve rivalutare il quadro. L’attesa dunque non è ancora finita per il sindaco che, non senza un velo d’amarezza per quello che sta vivendo, ci racconta le energie profuse in tutti questi anni, gli intenti che lo animano, soprattutto l’urgenza di scegliere da che parte stare.
Sindaco, pochi giorni fa la Cassazione ha depositato le motivazioni dell’udienza con cui ha annullato con rinvio il divieto di dimora a Riace, non riscontrando indizi di “comportamenti fraudolenti” nell’affidamento del servizio di raccolta rifiuti. Sulla vicenda dei presunti matrimoni di comodo che lei avrebbe favorito, invece, gli ermellini scrivono che poggia su basi incerte e che mancano significativi e precisi elementi di riscontro. Qual è la sua verità e quale quadro si augura possa emergere dall’udienza preliminare che a giorni deciderà sul suo rinvio a giudizio?
“Sento il dovere, per amor di verità, di dire le cose come stanno. Ritengo ci sia stata una precisa intenzione, una premeditazione nel sedersi al tavolo e dire: la storia di questa piccola realtà del profondo Sud italiano va fermata. L’intenzione di fermare soprattutto il messaggio politico, più che il modello in sé. È alquanto strano che ci si accorga di Riace soltanto dopo tanti anni. Ci sono tante ombre, ma la verità si fa luce da sola.
Sui rifiuti, il modello che abbiamo messo in atto è stato bellissimo: prima del nostro intervento, a Riace e in tutti i paesi della Locride, i contenitori per strada debordavano di rifiuti maleodoranti, una vera vergogna. Buste ammassate, nessuna differenziazione. Poi in municipio abbiamo iniziato a fare delle riunioni, invitando i ragazzi a partecipare. Dicevo loro: il problema numero uno di questa terra è la mancanza di lavoro, ma anziché affidare la gestione dei rifiuti a ditte che vengono da fuori, perché non facciamo in modo che i rifiuti per i quali i nostri contribuenti pagano le tasse diventino un’opportunità per il territorio?
Così abbiamo fondato le due cooperative, Aquiloni ed Ecoriace, abbiamo creato l’isola ecologica, preso in affitto i container e iniziato a prelevare i rifiuti, sia quelli domestici che quelli pubblici di bar, ristoranti, hotel. Il borgo rurale però era poco accessibile ai mezzi meccanici, così abbiamo realizzato (autoctoni e non, insieme) tre carrettini di legno, da far trainare dagli asini per prelevare i rifiuti a casa delle persone anziane che, ad esempio, avevano difficoltà a conferirli nei contenitori unici dislocati lontano dalle abitazioni. Al contempo, quest’idea ci ha permesso di valorizzare il territorio e le sue antiche tradizioni. Mi si è contestato un affidamento diretto del servizio di gestione dei rifiuti, che però per la legge risulta perfettamente regolare al di sotto della soglia comunitaria fissata per 150 mila euro: e la Cassazione questo lo ha riconosciuto. In più ho sempre agito non come organo monocratico, ma tramite il Consiglio comunale tutto, acquisendo tutti i pareri di regolarità necessari, da quella tecnica a quella finanziaria”.
E per quanto concerne l’altro capo d’accusa, ossia il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina tramite i “matrimoni di comodo”?
“Vengo penalizzato per il solo tentativo di celebrarli. Vengo penalizzato per la legge Bossi-Fini che tutti criticano ma che nessuno ha mai abolito. Lo stesso ex ministro degli Interni ha contribuito a oscurare l’esperienza di Riace. Il tema delle migrazioni è diventato il tema a livello globale, in America, in Europa, in Italia, in Calabria, perché è un aspetto che chiama tutti quelli che si occupano di problemi sociali, politici, etici, religiosi di fronte a una scelta: tu stai dalla parte dell’umanità o della disumanità? Senza incertezze, senza mezzi termini.
Ritengo entrino in gioco fondamentali aspetti etici: i disperati del mondo arrivano, non per fare una crociera, ma obbligati da una società che è ingiusta, che fa in modo che migliaia e migliaia di persone abbiano come ultima alternativa quella di intraprendere i viaggi della speranza. I governi, addirittura, fanno accordi con i capiclan della Libia che rinchiudono nei lager delle persone. Io vengo accusato per il tentativo di applicare quello che in realtà la stessa Costituzione prescrive, ossia trattare questi esseri umani come tutti gli altri.
Ricordo inoltre che non sono io ad aver celebrato matrimoni per rinsaldare vincoli di sangue o di mafia, con carrozze, limousine o elicotteri ad attendere gli sposi fuori dai municipi. Sono orgoglioso di tutto quello che ho fatto e lo rifarei. Mille volte, lo rifarei. Certo, ho molta amarezza nel cuore, se penso che addirittura mi sono state applicate le misure cautelari e sono stato condannato ancor prima del processo. Quest’attesa pesa, ma per fortuna ho ricevuto una marea di solidarietà, perché c’è un livello di percezione dal basso delle persone che conoscono il mio operato”.
Viviamo in un Paese in cui spesso ci si riempie la bocca della parola “legalità” per contrapporla a una generica illegalità entro cui si confinano fenomeni estremamente complessi, che non si riesce ad affrontare a livello sistemico, dalle mafie alle migrazioni. Non sempre però la parola “legalità” è sinonimo di giustizia. Questo l’ha riscontrato a livello pratico nella sua esperienza?
“Certamente. E poi non dimentichiamoci che l’apartheid in Sudafrica, la segregazione razziale negli Stati Uniti, il terzo Reich, il Fascismo rientravano tutti nella “legalità”. Lo stesso Decreto Sicurezza firmato da Matteo Salvini risulta legale. In Calabria, come d’altronde nel resto d’Italia, si guarda alle cose che producono consenso. L’era del berlusconismo ha fatto la sua parte, è stata soprattutto affermazione di un’idea di società legata al trionfo del consumismo, del neoliberismo portato all’esasperazione. Una deriva morale e il trionfo di una categoria sociale, quella dei ricchi, che probabilmente ha favorito il momento che stiamo attraversando.
E su cosa si basa l’ideologia del capo della Lega? Sul paradigma che la presenza degli stranieri (ma prima ancora di noi meridionali) sia il dramma sociale dell’Italia. È un’esaltazione dell’egoismo e della paura: quando prevalgono la paura del diverso, dei rom, il simbolo della ruspa, siamo dentro a una società che ha perso la sua dimensione umana. Bisogna ricordare sempre che c’è qualcosa di più importante. Specie quando ci si scontra con quello che dice la Costituzione italiana. Noi sindaci abbiamo giurato sulla Costituzione, per me è come una stella cometa. Perché è stata scritta con il sangue, per la libertà, il rispetto dei diritti e la dignità umana. Una società in cui non c’è uguaglianza non può essere una società dove c’è umanità. E spesso chi giudica appartiene alle alte sfere”.
Ci racconta com’è iniziato ed è cresciuto il suo impegno per Riace? Si aspettava l’eco che ha avuto a livello internazionale?
“Innanzitutto, mai avrei mai potuto immaginare di trovarmi dentro questa storia solo per avere involontariamente toccato un argomento come quello dell’immigrazione, di cui certamente non ero esperto. Tutto è avvenuto per una casualità, per uno sbarco (quello del veliero con a bordo circa 300 curdi, approdati a Riace nel 1998, ndr.). È stato un po’ come per i Bronzi che tanta notorietà hanno dato al mio Comune: le correnti del mare hanno trascinato quelle due statue che per millenni erano rimaste sui fondali, finché qualcuno le ha fatte riemergere. Allo stesso modo, il vento ha portato quel veliero a Riace: i curdi che sono arrivati non sapevano nulla del luogo in cui sarebbero approdati, per loro era semplicemente terraferma. Ed io passavo casualmente di lì. In quegli anni non ero ancora sindaco, solo un professore, ma ero già impegnato (prima ancora con i comitati studenteschi e l’allora Sinistra Antagonista) con un piccolo gruppo di persone, a dire: ripartiamo dai governi locali per dare un contributo non solo a Riace, ma una speranza di umanità possibile. Del resto, anche la mia azione da sindaco era basata sull’operare a livello locale, ma evidentemente le idee non hanno confini.
Mano a mano, senza rendermene conto, questo nostro lavoro ha attratto un grande interesse, come quello del regista tedesco Wim Wenders – per me un ricordo indelebile – che adesso vorrebbe ritornare a Riace. Chi si è seduto a tavolino per cercare di denigrare Riace lo ha fatto troppo tardi, perché Riace al di là degli aspetti burocratici e tecnici, aveva già trasmesso soprattutto un messaggio di umanità al mondo. E quando questo viene dall’ultimo paese, con le sue problematiche di condizionamento e di criminalità, il messaggio è ancora più forte”.
In molti sono convinti che colpendo Riace si sia voluto colpire anche un simbolo che fa del recupero e della cooperazione un’alternativa possibile alla desolazione di una terra martoriata dalla ‘ndrangheta, che spesso si sente lasciata sola anche dallo Stato. Pensa di avere calpestato gli interessi di molti con le sue azioni? E quanto è difficile essere un sindaco che si spende per gli ultimi senza secondi fini in questo territorio?
“Credo ci siano delle convergenze di più elementi. Intanto sembra ci sia qualcosa che ci obbliga a raccontare questa terra quasi esclusivamente come terra di mafia, dove siamo tutti potenzialmente mafiosi e l’unica soluzione sono più polizia, più Stato, più repressione. Mi rendo conto che l’azione giudiziaria e di contrasto alla criminalità è fondamentale, però potrebbe essere fine a se stessa, se non accompagnata da un’azione sociale che riguarda il territorio e la vita di tutti i giorni. Noi, con la nostra esperienza, abbiamo dimostrato che si può guardare al futuro di questa terra liberandola e ripartendo dalla nostra identità, dalle nostre risorse.
La stessa gestione dei rifiuti, ad esempio, dovrebbe essere oggetto di studio. Un’iniziativa da favorire: in dieci persone avevano trovato lavoro a Riace, senza aspettare che arrivasse dall’esterno la holding di turno, che magari gestisce già la raccolta rifiuti in cinquanta o cento Comuni e che magari entra nell’intreccio di un’economia che porta al controllo delle mafie. Noi avevamo sottratto il territorio a questo controllo, facendo un lavoro straordinario anche sull’acqua, sui beni confiscati e sull’accoglienza. Queste le linee guida su cui ci siamo mossi: un progetto di bene comune, per la collettività, amministrando senza interessi personali”.
Al Sud, lo spopolamento dei piccoli centri pare inarrestabile. Ogni tanto qualche sindaco propone delle “ricette” per invertire il trend. Lei più di vent’anni fa ha fondato un’associazione, dedicata a Padre Pino Puglisi, che si chiama “Città futura”. Quando immagina il futuro della Calabria e più in generale del Meridione, quali strumenti ritiene essenziali per una rigenerazione dei territori?
“Posso risponderle sulla base dell’esperienza di sindaco. Quando facciamo le programmazioni, mi pongo sempre il problema di questa emorragia continua: qual è l’obiettivo delle nostre iniziative? Qualsiasi lavoro pubblico, che sia una strada o un campo da calcio, diventa inutile se non c’è nessuno. Anzi, certe opere diventano persino pericolose per l’ambiente. Dobbiamo riconsiderare l’impegno politico che riguarda i piccoli centri, perché i paesi sono presidi non solo di democrazia, ma anche realtà di tutela del territorio. Se non rimane più nessuno, tutto ciò che circonda gli agglomerati urbani in breve tempo diventa deserto oppure rischia di franare.
I piccoli borghi sono anche contenitori di storie, di culture, di antiche tradizioni, l’anima stessa della Calabria, fatta delle piccole realtà delle colline e delle cosiddette aree interne. Ma l’origine dell’abbandono è stata anche storico-culturale, perché quando le antiche comunità contadine sono emigrate c’era il latifondismo agrario, la proprietà delle terre erano nelle mani di pochi. È sempre questa logica delle società divisa in classi sociali che ritorna. Anche per quanto riguarda l’accoglienza, io dico: noi dobbiamo ripartire dalle periferie abbandonate. E non abbiamo bisogno di costruire e di consumare altra superficie edificabile da sottrarre all’uso pubblico, abbiamo bisogno di spazi per socializzare”.
In America, un giorno sì e l’altro pure, Donald Trump dichiara che il muro con il Messico si farà e anche in fretta, perché “difendere i confini è emergenza nazionale”. In Europa, molti Paesi membri non fanno la loro parte rispetto alle quote di migranti da accogliere. Lei invece a Riace non ha posto alcun limite all’accoglienza. Pensa che questo modello possa essere sostenibile ed “esportabile” anche in realtà molto diverse?
“L’umanità si può esportare ovunque. Il mio sogno è quello che, quando non ci sarò più, le società possano vivere dove non c’è bisogno di confini e di passaporti. Se invece di alzare barriere e muri, aprissimo il cuore e gli orizzonti, ci renderemmo conto che non c’è bisogno di odio. Questo lo devono imparare, è inutile che gridano: l’odio produce altro odio, divisioni, contrapposizioni. Perché complicare le cose quando la vita di tutti i giorni è già tanto dominata dall’incertezza? È molto più facile avere un atteggiamento umano, dolce verso l’accoglienza, e quando lo fai ti viene da sorridere. Perché denigrare le persone senza conoscerle? Perché avere pregiudizi? Io invito tutti ad accorgersi di quale leggerezza dell’animo ci sia nel rapportarsi agli altri: non serve pagare nulla, basta uno sguardo più leggero”.