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Per capire il caso Riace, rileggiamo gli antichi greci, Hannah Arendt, don Milani

"Disobbedienza civile": considerazioni letterarie e umane dopo l'arresto del sindaco di Riace, noto per il modello di accoglienza della cittadina calabrese

La Voce di New YorkbyLa Voce di New York
Per capire il caso Riace, rileggiamo gli antichi greci, Hannah Arendt, don Milani

Il sindaco di Riace, Mimmo Lucano (Wikimedia).

Time: 5 mins read

Nell’apprendere la notizia dell’arresto del sindaco di Riace Mimmo Lucano, mi è tornata alla memoria una delle mie letture del cuore, una perla della letteratura “civile”, nel senso più profondo del termine, italiana: Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia. Mi riferisco, in particolare, alla concezione del rapporto tra legge e Giustizia che ne emerge, una concezione ben più tragica e problematica di quanto si potrebbe pensare di primo acchito. Per il capitano Bellodi – e per l’autore medesimo -, la legge, intesa quasi socraticamente, scaturisce dall’idea di giustizia, nasce dalla ragione ed è ragione. Eppure, quella stessa legge s’infrange contro un muro di omertà e potere, il muro dell'”impostura”, e condanna al fallimento il nordico Bellodi, che, intrappolato negli insuperabili limiti del diritto, non riuscirà ad assicurare alla giustizia i responsabili del delitto di mafia, pur avendoli scoperti ed incastrati.

Il cartello di ingresso di Riace (immagine Wikipedia).

Una drammatica discrasia – quella tra legge e Giustizia, eticamente intesa – nella quale si annida la scelta: quella di rispettare, o meno, la legge e di restare, o meno, nei suoi limiti, anche quando essa dà origine a situazioni di ingiustizia morale, politica o sociale. L’uomo di legge Bellodi, tra il vagheggiamento di un’utopica giustizia sostanziale e la concretezza della norma formale, sceglie responsabilmente di restare aderente alla garanzia del diritto, e saldamente, nonostante tutto, entro i suoi confini. Altri, nella storia del pensiero, hanno percorso o teorizzato un’altra strada: quella della resistenza, della disobbedienza civile. Non a caso, proprio l’espressione scelta dallo scrittore Roberto Saviano, convinto ammiratore del modello Riace, per commentare la notizia dell’arresto del Sindaco. Un’espressione che ha una lunga tradizione nella storia del pensiero occidentale, e affonda le sue radici nel mondo greco.

«E poiché sei venuto al mondo, sei stato allevato ed educato, come puoi dire di non essere, prima di tutto, creatura nostra, in tutto obbligato a noi, tu e i tuoi avi?», dicono le Leggi a Socrate in un celeberrimo passo del Critone platonico. E proprio Socrate è citato dalla filosofa tedesca di origini ebraiche Hannah Arendt, nel suo prezioso manifesto di resistenza consapevole alla prepotenza del potere, in contrasto alla concezione di Thoreau. L’antico greco, nonostante l’errore giudiziario, mai mise in discussione la sacralità della legge e preferì la morte, perché «una vita senza indagine non è degna di essere vissuta»; il filosofo e scrittore statunitense, invece, nel rifiutarsi di pagare l’imposta elettorale a un governo che consentiva la schiavitù, pose l’accento sulla coscienza morale dell’individuo, sancendo ufficialmente l’ingresso dell’espressione “disobbedienza civile” nel nostro vocabolario politico e sociale. Thoreau, insomma, al contrario di Socrate, scelse la strada tracciata dalla tragica Antigone di Sofocle, che disobbedì alla legge di Tebe e Creonte per aderire a un più alto diritto divino.

«In generale non è dovere dell’individuo dedicarsi a sradicare ogni male, fosse anche il più abietto; può benissimo dedicarsi ad altre occupazioni; ma è suo dovere tenere le mani pulite», diceva Thoreau. “A che serve avere le mani pulite se le si tengono in tasca?”, si domandava, in altro luogo e in altri tempi, don Lorenzo Milani, colui che applicò la disobbedienza civile nel difendere l’obiezione di coscienza alla coscrizione militare. Un’obiezione che, insegnava ai suoi ragazzi, significava opporsi all’obbedienza, quando questa non fosse “più una virtù”, ma divenisse prona sudditanza. Il prete delle periferie insegnava ai giovani il coraggio di essere “sovrani di domani”: e quindi la possibilità, se necessario, di opporsi alle leggi ingiuste o inefficaci, e rivendicare un diritto migliore. Un pensiero che don Milani sviluppò in alcuni testi pubblicati nel 1965, e idee per le quali fu processato per apologia di reato. Assolto in primo grado, il priore di Barbiana fu quindi condannato nel processo di appello, tenutosi nell’ottobre del 1967, ma la pena fu infine estinta per la morte del “reo”, sopraggiunta il 26 giugno dello stesso anno. 

Anche nel caso di Mimmo Lucano, la legge dovrà fare il suo corso. Non è competenza dei ben noti tribunali mediatici diffondere un verdetto prima del tempo, qualunque esso sia. Per ora, basti sottolineare che, al netto delle accuse di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e fraudolento affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti, si affiancherebbe l’esclusione delle contestazioni più gravi (concussione, truffa ai danni dello Stato, l’utilizzo dei fondi per la gestione dell’accoglienza dei migranti), in quanto, recita il comunicato, “il diffuso malcostume emerso nel corso delle indagini non si è tradotto in alcuna delle ipotesi delittuose ipotizzate”. Per chi volesse apprendere tutti i particolari della vicenda, rimandiamo all’ottima sintesi di Valigia Blu. Ma ciò che più preme, in questa sede, è sottolineare come il sindaco di Riace abbia candidamente inscritto il proprio operato in quella tradizione di disobbedienza civile a cui abbiamo accennato più sopra. “Per me è molto più importante la giustizia che la legalità. Questa parola mi dà fastidio, perché a volte è una gabbia che produce illegalità, specie nella nostra terra. Noi abbiamo voluto dire al mondo che la Calabria è anche questo, la costruzione di una struttura umana e non solo case e lavori pubblici. Da tutta questa storia non ho guadagnato nulla, ho solo perso la famiglia. Ma ho demolito quel paradigma che vuole che chi fa il sindaco si faccia i fatti suoi. Mi dicono che sono uno stupido ma non mi importa”, affermava lo scorso anno in una intervista. “Abbiamo lavorato per i primi quattro anni senza soldi, riuscendo a risvegliare l’identità dei luoghi e facendola diventare un’opportunità. Abbiamo capito subito che far stare gli immigrati in una camera, come in un albergo, non portava a niente: si sarebbe fermato tutto là, senza portare rigenerazione sociale al territorio”.

L’Anfiteatro di Riace (Wikipedia).

La legge farà il suo corso: nessuno ne è al di sopra, e questo è garanzia dello Stato di diritto. Don Milani ne era profondamente consapevole: alla disobbedienza, corrisponde, eventualmente, la pena. Ma, sosteneva, “chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri. Non capisco come qualcuno possa confonderlo con l’anarchico”. Lo ripetiamo, dunque, ancora una volta: la legge farà il suo corso. Spetterebbe poi alla politica interrogarsi, oltre gli slogan e la propaganda, su come poter rendere più razionale ed efficace il sistema di accoglienza diffuso sul territorio italiano, superandone cortocircuiti e insopportabili ipocrisie. Spetterà, invece, alla coscienza individuale di ogni singolo cittadino, quando i fatti saranno interamente chiariti nelle sedi competenti, esprimere il proprio giudizio su questa vicenda anche su un altro piano: quello etico, morale, umano. Spetteranno, il giudizio e l’interpretazione, ai giovani di oggi e di domani, a coloro che don Milani voleva rendere “sovrani” anche rispetto alle leggi preesistenti; spetterà, pure, a chi oggi inneggia al sindaco “eroe”, e a chi strepita gongolante e soddisfatto al “business dell’immigrazione”. Possibilmente, fuori dall’indegno e ipocrita circo avvelenato di ideologie, scatenatosi in queste ore sui social network. Ma questa, forse, è un’altra storia.

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