Un gioco da tavolo che diventa un set di dialogo, si trasforma in uno spazio dove si parla di femminismo, pari opportunità, condizioni delle donne. Protagonisti di questo dialogo sono 22 coppie di padri e figlie, chiamati a discutere, interrogarsi, posare per un ritratto vecchio stile da Marzia Messina e Sham Hinchey, fotografi e compagni che insieme alla figlia undicenne Penelope hanno realizzato il progetto Dear Daughters. Video interviste, foto, domande e risposte che nascono attraverso un gioco creato da Marzia, Sham e Penelope, con l’obiettivo di instaurare riflessioni, porsi interrogativi e discussioni.
Il progetto è nato appena prima scoppiasse lo scandalo Weinstein, inserendosi così in un momento storico ben preciso e diventando di grande attualità. Marzia Messina, romana, viene dal mondo dell’accademia di Belle Arti mentre Sham, londinese ma romano di adozione, ha studiato fotografia. Insieme hanno dato vita al percorso professionale “Marshamstreet” collezionando clienti nella moda e nella pubblicità. Oggi vivono a Brooklyn insieme alla figlia Penelope e lavorano per la D’Addario, la casa produttrice di corde per strumenti musicali, occupandosi di fotografia e video.

Tra i loro progetti interessanti c’è un libro fotografico 365D pubblicato in Italia nel 2012. Si tratta di una raccolta di 365 ritratti di donne dai 18 ai 90 anni con relativi racconti, una storia al giorno. “Ci siamo imbarcati in Dear Daughters per ascoltare gli uomini parlare di diritti, discriminazioni di genere e femminismo, volevamo capire che tipo di posizione e partecipazione avremmo trovato. L’aspetto ludico ha facilitato le conversazioni in quei soggetti non abituati a questo genere di confronto.

Il gioco ha funzionato spazzando via la timidezza dalle figlie e l’imbarazzo dai padri, le interviste sono diventate un momento di unione tra loro lasciandoli con la sensazione di aver fatto un’esperienza positiva. Ci auguriamo che possa diventare un bel libro. Le foto invece possono costituire una mostra e cercheremo degli spazi interessati a accoglierla. In parallelo abbiamo messo in moto delle relazioni interessanti per sviluppare il gioco utilizzato nelle interviste. Ci piacerebbe poterlo diffondere nelle famiglie e nelle scuole”.
Dear Daughters nasce condivisa con vostra figlia Penelope. Che spunti vi ha dato vostra figlia e come si è sviluppato il progetto?
“Dear Daughters nasce da una nostra idea condivisa da subito con nostra figlia Penelope. L’abbiamo inclusa nelle prime conversazioni quando cominciavamo a abbozzare i primi tratti del progetto. È stata presente in molte fasi del lavoro, quando per esempio abbiamo capito che per intervistare delle bambine su temi impegnativi c’era bisogno di un espediente, così abbiamo pensato al gioco che poi abbiamo testato con Penelope. Insieme abbiamo pensato e disegnato le carte con le domande. Abbiamo discusso la fascia di età da coinvolgere e Penelope ha chiamato a partecipare alcune amiche di scuola, infine è stata sul set per accogliere e spiegare il progetto alle bambine.

Ci siamo imbarcati in Dear Daughters per ascoltare gli uomini parlare di diritti, discriminazioni di genere e femminismo, volevamo capire che tipo di posizione e partecipazione avremmo trovato. Lo abbiamo realizzato in un momento in cui il termine femminismo ricominciava a trovare spazio nelle conversazioni in famiglia. Washington con “Women’s March” aveva portato in piazza migliaia di donne e uomini con cappellini rosa e maglie femministe, maglie che molte bambine continuavano a indossare a scuola. Ci incuriosiva capire quanto nelle famiglie si stava parlando di femminismo, della sua attualità e quanto attivismo o coinvolgimento da parte degli uomini ci fosse.

Sono cresciuta in una famiglia dove il dialogo con mio padre già a 10 anni occupava una parte fondamentale della nostra giornata, erano momenti in cui ci si raccontava, dove si toccavano temi importanti, dove mio padre coglieva sempre i miei moti di animo e mi consigliava, dove si poteva discutere animatamente o finire a cantare. Ci piaceva l’idea di ricreare quell’atmosfera sul set di Dear Daughters, un luogo comodo dove padre e figlia potessero interagire con naturalezza.

L’aspetto ludico ha facilitato le conversazioni in quei soggetti non abituati a questo genere di confronto. Il gioco ha funzionato spazzando via la timidezza dalle figlie e l’imbarazzo dai padri, le interviste sono diventate un momento di unione tra loro lasciandoli con la sensazione di aver fatto un’esperienza positiva”.
Attraverso un gioco da voi creato padri e figlie parlano di femminismo e gender. Cosa è emerso dai dialoghi?
“Abbiamo intercettato una certa preoccupazione da parte di alcuni padri nel sapere che quasi certamente le figlie passeranno attraverso esperienze amare, forse le stesse che hanno sentito raccontare dalle altre donne della loro vita. Le parole che hanno speso con le figlie però sono sempre rimaste piene di fiducia e incoraggiamento, consigliavano loro di continuare a studiare per rendersi autonome, di non trovarsi a dipendere da qualcun altro, di non perdere la propria sicurezza, di aspirare a posizioni che le rendano felici e forti.

Il tema dell’indipendenza e delle pari opportunità ci è sembrato molto sentito sia nei padri che nelle figlie. Gli adulti spiegavano quanto ancora oggi e in ogni settore possano esistere discriminazioni e disparità di genere e che assolutamente bisogna combattere. Le bambine sembrano già averlo intuito, riconoscono l’ingiustizia, la detestano, capiscono che possono e devono aspirare alle posizioni che desiderano anche dove la presenza delle donne è scarsamente contemplata. Conoscono il significato di “stereotipo”, ne hanno parlato a scuola o a casa. Amano sentirsi libere di vestirsi come vogliono, di giocare a calcio, ci tengono a dire di preferire il colore blu al rosa, ne fanno quasi una loro piccola battaglia”.

Il vostro progetto fotografico si inserisce in un periodo storico preciso: lo scandalo Weinstein che ha avuto ripercussioni in tutto il mondo.
“Nei primi di ottobre un’intervista sul nostro progetto é stata pubblicata su Huffington Post Usa, esattamente il giorno dopo uscí il primo articolo dove si dichiarava che uno dei produttori più potenti di Hollywood aveva sfruttato la sua posizione di potere per molestare e abusare di un numero imprecisato di attrici. Il muro del silenzio stava andando in frantumi, per la prima volta qualcuna denunciava senza più temere ricatti e ritorsioni. In quel preciso caso non erano più le donne a temere, il tremito stava passando di mano. Gli effetti del caso Weinstein e successivamente #meetoo stavano aprendo una nuova pagina di storia.
Il nostro progetto riflette la situazione attuale, Dear Daughter proprio per il suo impianto ha viaggiato spontaneamente all’interno di quest’onda sempre più carica e trascinante andando a finire su decine di testate e portali in tutto il mondo. Parlavamo di femminismo, lo facevamo con termini semplici, lo stavamo facendo con degli uomini, da una parte c’era l’arroganza di Weinstein, dall’altra uomini che con gentilezza empatizzavano con le figlie parlando di discriminazioni e abusi”.

Che consapevolezza hanno mostrato le figlie e i padri rispetto a temi come gender e femminismo
“La maggior parte dei padri ci sono sembrati consapevoli, attenti e molto sensibili a tutti temi affrontati. Le bambine hanno mostrato interesse, curiosità, conoscono donne attiviste, donne nell’arte, nella cultura, scienziate e sportive. Sono bambine che hanno seguito le ultime elezioni, ascoltando i dibattiti delle due fazioni, hanno amato e salutato Michelle Obama, dichiarano che è importante battersi affinché le donne occupino posizioni fino ad ora spettate agli uomini. Sono ricettive, vogliono capire di chi è la responsabilità e sanno che bisogna faticare per cambiare queste condizioni. Sono infastidite dal sessismo di certi film o cartoni animati a loro dedicati, ripudiano l’aggressività e la violenza… Ascoltare i dialoghi delle bambine è di grande insegnamento, è piacevole e si ride anche molto”.
Che dialogo avete avuto con vostra figlia quando avete parlato con lei di femminismo? Cosa è emerso dalle diverse prospettive?
“Penelope è sempre stata una bambina interessata a capire le conversazioni degli adulti, chiede il significato di parole che non conosce e si fa spiegare il topic degli argomenti. Non evitiamo di parlare in sua presenza semmai rendiamo il dialogo accessibile a lei. E’ cresciuta in una famiglia dove ha sentito parlare di femminismo dai suoi nonni oltre che da noi.

In Italia nel 2012 abbiamo pubblicato un libro chiamato 365D, trecentosessantacinque storie di donne, frutto di tre anni di lavoro. Il libro fotografico è una raccolta di 365 ritratti di donne dai 18 ai 90 anni con relativi racconti, una storia al giorno. Penelope era con noi anche allora, quando le spiegavamo che volevamo ritrarre donne della vita reale in contrapposizione a quelle donne proposte dai media così lontane dall’essere autentiche. Al tempo c’era Berlusconi, le olgettine, le veline, uno stuolo infinito di donne immagine, oggettificate perfino in politica. Penelope ha conosciuto molte delle donne che abbiamo incontrato e nel tempo ha voluto che le raccontassi alcune storie. Ho dovuto cercare le parole per spiegarne qualcuna più complicata come ad esempio quella che aveva scritto sua zia, mia sorella, ho rimandato fino allo scorso anno per dirle che all’età di 17 anni aveva subito una violenza da un uomo di 54.
Con Penelope parliamo moltissimo, di come è bella la vita, di come va il mondo e di come potrebbe migliorare. Non è spaventata, ama scrivere, scrive delle belle storie, spesso tristi perché come mi ha spiegato qualche giorno fa… “la mia vita è bellissima mamma… per questo scrivo di personaggi brutti, sfortunati e di storie tristi, per esplorare e mettermi nei loro panni”.

Come è cambiato secondo voi il dialogo sul femminismo oggi rispetto a quando ne parlavi in famiglia?
“Non so se la mia esperienza rispecchi una generazione, nel mio caso i miei genitori erano particolarmente attivi nei dibattiti e nelle manifestazioni di allora. La partenza si era diversa, l’impianto della maggior parte delle famiglie era tradizionale, i ruoli erano ben precisi, non si andava a convivere prima del matrimonio, non si parlava di sesso, ci si sposava giovanissimi, in genere era l’uomo a lavorare e la donna a badare alla casa e ai figli. Le battaglie, la coscienza e il fermento cresceva, maturava nelle case, nelle università, si ottennero leggi sul divorzio e sull’aborto, i nostri genitori ci stavano consegnando la chiave dell’emancipazione, la dimostrazione che un cambiamento anche radicale era possibile. Quindi a casa c’era sempre un dibattito vivissimo, erano tempi durissimi, le battaglie erano dure, ma a me arrivavano messaggi pieni di speranza e ho sempre avuto chiaro che per ottenere un risultato è necessario rimboccarsi le maniche e mettersi in gioco”.

Come si può affrontare la tematica gender e femminismo con le nuove generazioni 3.0?
“Il progresso e la tecnologia crescono con noi, la connessione h24 al web è praticamente in ogni casa, quello che possiamo fare è limitare questo accesso recuperando la relazione umana. Noi abbiamo questa grande responsabilità. Abbiamo proposto un progetto dove il dialogo occupa un posto d’onore e lo incentiviamo con un gioco semplice. Le persone sono impazzite per il gioco, abbiamo ricevuto molteplici richieste per acquistarlo, questo significa che c’è ancora spazio per le relazioni, che c’è il desiderio di sedersi insieme ed avere uno scambio vis-à-vis.
Sul web passa tutto e il pericolo è che ci anestetizzi, recuperare la ragione ci aiuta a non perdere il senso della realtà e a trasformare faccende come quella di Weinstein e la protesta #metoo in movimenti concreti come “Time’s Up / Dear Sisters” con il quale sono state raccolte centinaia di adesioni e appoggi economici per combattere aggressioni sessuali e discriminazioni nel mondo del lavoro e per sostenere legalmente le fasce meno abbienti. Ecco, questa può essere una delle forze del 3.0, la grande potenzialità di generare onde gigantesche e poi trasformarle in pratica. Le nuove generazioni stanno osservando anche questo”.

Dear Daughters è stato più per voi un progetto di denuncia sociale, sensibilizzazione, riflessione? Quali le conseguenze tratte?
“Siamo fotografi e amiamo dedicare tempo ai nostri progetti personali. Le nostre idee, opinioni e visioni spesso migrano nella fotografia, la nostra ricerca, i nostri movimenti d’animo si tramutano in immagini, la fotografia oltre a essere un’arte che amiamo praticare spesso è anche un mezzo che ci aiuta a comunicare quello che in parole non riusciamo a trasferire. Dear Daughters nasce un po’ per tutti quei motivi, per condividere delle riflessioni, per sensibilizzare, per stimolare il dialogo, per ottenere delle reazioni, per attivarci almeno con i mezzi che abbiamo a disposizione”.
Che potere e ruolo ha la fotografia in questo caso?
“Come dicevamo prima la fotografia è un mezzo potente di comunicazione visiva e racconta molto di cosa o chi c’è dentro e dietro quell’immagine. In Dear Daughters la fotografia descrive un rapporto evoluto tra padre e figlia. La scelta di quel preciso contesto evoca un antico ritratto di famiglia, tuttavia i padri non rispondono ad una figura autoritaria o dura e le figlie non mostrano soggezione, c’è familiarità e fiducia come vorremmo fosse un rapporto contemporaneo caratterizzato da amore, complicità e solidarietà.
Speriamo che le immagini di Dear Daughters mostrino un insieme di coppie solide, unite, dove padre e figlia stanno dalla stessa parte”.
Siete una coppia da qualche anno in America. Che spunti vi da questo paese per la vostra professione?
“Questo paese arriva molto intensamente ai nostri sensi, è stato cosí da subito. Siamo tutt’ora colpiti dai suoi forti contrasti, dalla miscela di popoli e culture. Capita con facilità di fare incontri interessanti, di trovare entusiasmo e curiosità e una grande voglia di condividere le storie di come ognuno sia arrivato qui. Un paese dove molta gente è di passaggio ma in quel passaggio per quanto a volte breve c’è una gran voglia di fare, conoscere e trasferire.
Apprezziamo l’arte, gli spazi che l’accolgono comprese le strade dove i muri sono la faccia espressiva e colorata. Amiamo l’architettura eclettica della città, la convivenza di epoche e stili, passeggiare per le sue strade sentendoti in un film dei primi Novecento o in uno futuristico, per poi allontanarti da lei mentre ti dirigi in un parco naturale appena fuori Ny, voltarti e vedere la sua silhouette, enorme, alta, piena… un bel colpo, sempre.
Tutto questo ha un fascino che s’impone immediatamente e per la nostra professione è qualcosa di altamente stimolante e prezioso, offre spunti per raccontare storie ed è quello che ci piacerebbe continuare a fare. Una frase che ci ripetiamo anche con altri amici è che questa città chiede tanto ma restituisce”.
Che futuro avrà Dear Daughters?
“Ci auguriamo che possa diventare un bel libro, in questo momento stiamo dialogando con un agente letterario, vediamo se riusciamo nell’intento. Le foto invece possono costituire una mostra e cercheremo degli spazi interessati a accoglierla. In parallelo abbiamo messo in moto delle relazioni interessanti per sviluppare il gioco utilizzato nelle interviste. Ci piacerebbe poterlo diffondere nelle famiglie e nelle scuole”.